Dietro un cancello azzurro di una strada trafficata di Lusaka, riposano storie su letti di metallo bianco smaltato. Riposano con fiato corto, ogni giorno sempre più a debito d’ossigeno. Riposano sino al giorno in cui non potranno più essere raccontate. Quel cancello così sfacciatamente azzurro imbarazzerebbe un’intera via di Milano. I colori bisogna saperli portare, solo così la relazione con loro diventa una danza. Spesso l’amicizia tra uomo e colore è abbandonata. Non qui, qui l’azzurro è di casa e il cielo sembra dare ragione a questa scelta. S’intona bene. Non so, forse è un modo per portare il cielo in terra. È la casa delle suore di Madre Teresa. Dentro, più di duecento vite trovano l’ultimo rifugio prima del respiro finale. Tre quarti di questa gente porta nel sangue la sentenza di una malattia che non fa sconti: Aids. Vengono portati davanti a quel cancello azzurro quasi morti, raccolti come rami secchi da sotto un albero senza foglie. Dentro, sdraiati su letti uguali, storie diverse e sconosciute si vanno dimenticando, come un libro che ogni giorno perde l’inchiostro dalle pagine, e una dopo l’altra scompaiono senza far rumore, perché si è già dimenticati ancor prima di essere stati ricordati. Charles è sdraiato su uno di quei letti di metallo, leggero, quasi appoggiato, come un fiore su una tomba. Il suo peso sembra non disturbare il materasso avvolto da un lenzuolo blu e da un odore aspro di disinfettante che punge la gola. Avrà quarant’anni. Il suo sguardo sembra andare oltre ciò che si vede. Passa i muri pennellati a vernice bianco sporco, trafigge delicatamente alberi di papaia e persone come fossero vetro, per arrivare lì, davanti a quel cancello e perdersi nel suo azzurro, nel punto in cui si confonde con il cielo. Chissà cosa pensa? Chissà cosa hanno visto quegli occhi scomodi da fissare. Diciassette anni fa è scappato dal suo paese, il Rwanda, per via del genocidio che ha visto scomparire in cento giorni un milione di esseri umani. Charles viene dalla capitale, Kigali, dove ha lasciato la sua famiglia e tutti i suoi parenti. Abitavano tutti vicini, come si viveva da noi nei cortili una volta. Tra otto famiglie che condividevano cibo, amicizia, relazioni, aria e sole, è rimasto solo lui. Gli altri hanno incontrato il machete. Charles è scappato per miracolo o per errore. Ha provato sulla sua pelle il dolore di una lama che taglia la carne e spacca le ossa. La mano sinistra racconta di un colpo impreciso che aveva solo un intento: uccidere. Ha un sadico disegno anche sopra l’occhio sinistro, una ferita guarita correndo per raggiungere il confine e trovare salvezza in Congo. Erano in trecento a scappare quel giorno. Un esodo verso la vita con la morte negli occhi. È questo che Charles ha negli occhi; la morte. Quanti saranno arrivati? Lui si è salvato…o forse no. In qualche modo è arrivato in Zambia, dove ha avuto il permesso come rifugiato. Non basta un foglio di carta per cancellare l’orrore. Il trauma e il male di quei cento giorni non hanno bisogno di permessi firmati e bollati, rimangono punto e basta! Serve altro, serve l’uomo. Cento maledetti giorni in cui il mondo è rimasto a guardare, discutendo sul significato della parola “genocidio”, e intanto resti di umanità venivano raccolti in fosse comuni e sepolti sotto metri di terra e calce viva. Corpi morti e calce viva. È li che sono sotterrate le nostre coscienze. Sono passati quasi diciassette anni. Anni di convivenza con fantasmi che non l’hanno mai lasciato solo, gli unici probabilmente a non averlo fatto. Adesso ha quarant’anni e sta aspettando il giorno in cui la malattia porti via gli ultimi atti di una vita il cui senso è davvero un mistero. Qual è il senso di essere scappato da un genocidio, essere stato testimone di bestemmie non raccontabili, per morire di Aids, solo, in un letto uguale a tanti altri, in una casa dal cancello azzurro? La verità è che abbiamo fallito tutti. Se ci sono vite che non hanno potuto prendere il volo, se ci sono esistenze che non hanno potuto avvertire la presenza di Dio e la sua promessa di felicità già qui su questa terra, vuol dire che tutta l’umanità ha sbagliato. Abbiamo nascosto il Regno di Dio agli occhi di Charles! …e chissà a quanti altri. Ci sono frasi che aumentano la vergogna e si prendono gioco della vita vera: “è il volere di Dio”. Dio non c’entra, siamo noi il problema! È il nostro volere, o meglio, il nostro non volere a riempire letti smaltati di bianco, a cancellare l’ultima pagina di storie che nessuno ricorderà. Siamo noi che scherziamo con le beatitudini e non facciamo di questo mondo un posto degno di essere abitato da uomini e donne. Vicino ai tavoli di legno consumato dal tempo, dove mangiare è impegno, dove ad ogni boccone la gola si stringe ancora di più per nostalgia di un appetito lontano, c’è una casetta bianca e blu. Quella è la destinazione finale. Ci si entra pian piano, ogni giorno guadagnandola con un po’ di vita in meno. La vita rimane sulla porta, lì si entra senza. Lì comincia una promessa che non siamo stati capaci di realizzare su questa terra. Resta solo l’amaro in bocca; avremmo potuto farlo, era alla nostra portata. Era all’altezza dell’essere umano. È alla nostra altezza.