Mi sono fermato ai piedi di un grande albero, peso sia stato un’acacia. Sotto c’erano delle tombe, semplici, non appesantite da decorazioni ostentate. Erano le tombe di un giovane medico locale, il dottor Metthew Lukwiya, e undici infermieri, anche questi, molto giovani e tutti ugandesi. Voglio dirti i nomi, perché penso sia importante riconoscere la vita per il nome che porta. Grace, Victor, Hellen, Santina, Immaculate, Asienzo, Christine.L, Daniel, Nyeko, Margaret, Florence, Christine.A. Sono tutti molto giovani, e sai perché sono morti? Nel 2000 ci fu un’epidemia di Ebola, morirono un casino di persone. L’Ebola è una malattia tremenda, è una febbre emorragica, la prendi per via aerea e in tre giorni ti spappoli dentro. Non si sa molto di questa malattia, come si sviluppa, da dove viene e perché. Bene, questi ragazzi sono morti perché hanno deciso di non scappare, di aiutare la gente. Erano coscienti del rischio che correvano… Sono morti consapevoli! C’è una cosa che mi ha colpito; sulla tomba c’èra una scritta bianca che porta con se i segni di otto anni di “dry season and rain season”, e diceva: “ I have made up my choice”. Hanno fatto la loro scelta e sono restati fedeli alla vita. Ho la sensazione che la loro non è stata una scelta dettata dall’emergenza, dal gesto eroico e istintivo di un momento, ma sia stata una fedeltà ad una scelta precedentemente fatta, una scelta che sta a monte. L’avevano deciso prima, senza che ci fosse l’emergenza. È stato un gesto di coerenza a ciò in cui hanno creduto. Questo è il senso del “dare la vita” che mi punge dentro. È una promessa che ci si sente in dovere di fare e arriva il momento in cui bisogna mantenerla. È la vita stessa che lo chiede.