“Ma si dai fai un altro giro, magari trovi qualcuno”. Il fuoco bruciava come una ferita brucia quando gocce di sudore l’attraversano per continuare la loro discesa verso terra. Il sudore e la terra si conoscono perfettamente, sono antichi amici.
Lisa era apparsa dal nulla, un momento prima non c’era, qualche minuto dopo era la, intenta a dar da bere al suo fuoco assetato di diesel. “sciao fratelo, andiamo jiro”. Lisa era stanca, la sua esuberanza quella notte non le faceva compagnia. Era sola, o almeno, così sembrava. “andiamo tranquilo, ooh mia panscia fa male”. Non stava bene e si vedeva. Come al solito Lisa era mezza nuda e sentiva freddo. Lei sapeva dove andare; era un piccolo parcheggio in un paese poco distante dal posto in cui si svendono piaceri in cambio di un pezzo di debito in meno. Quel posto sembrava sicuro, tra alcune palazzine e due lampioncini bassi che facevano più rumore che luce. C’era solo un posto libero nel parcheggio. Una fila di macchine interrotta solo da uno spazio d’asfalto, come un dente mancante nel sorriso vitreo della notte, come una spina mancante nella lisca di un pesce di lamiera colorata. Mancava solo l’azzurro metallizzato, così, ci siamo infilati per completare l’opera. Di fronte, un muro strullato di cemento grigio, alto poco meno dei lampioni parlanti. Una volta spento il motore e le luci dell’auto, restava un silenzio metallico, un filo di luce fredda tremante e il respiro pesante del sonno di Lisa, con il sedile abbassato avvolta nella mia felpa color caffèlatte. Era tardi, circa le due del mattino, e la rugiada delle notti estive cominciava a prender riposo sui vetri già macchiati da schegge di moscerini e zanzare, attaccati come crostacei allo scoglio. Nei palazzi, oltre il muro di fronte, le finestre spente parlavano già della mattina a venire, di risvegli di gente con in bocca il sapore di Luglio, di ferie vicine. Io stavo li, aspettando un tempo mio per svegliare Lisa. Troppo tardi! A svegliare Lisa sono stati due fari che si facevano sempre più vicini e lenti fino a fermarsi esattamente dietro di noi. Il tempo di girarsi e di vedere una scritta bianca su sfondo nero evidenziata da una striscia rossa: CARABINIERI. Da qui, naturalmente col senno di poi, la cosa si fa talmente assurda da sembrare comica. Il lampeggiante ci passava ritmicamente sulla faccia come schiaffi di luce blu dati sempre sulla stessa guancia. Qualche secondo di silenzio e poi una voce nasale con le vocali aprte: “amicooo! Mani sul volante!” Lisa cominciò ad andare in panico non appena realizzò che non aveva vie d’uscita: un muro davanti e la sua portiera sbarrata dall’auto di fianco. Era in trappola, e la sua clandestinità le toglieva l’aria. Era davvero fuori di sé. Gridava, piangeva, si dimenava…una pazza, tanto che il carabiniere fu colto di sorpresa, come spiazzato dalla reazione. Se avessi visto questa scena da fuori sarei scoppiato a ridere. Io, immobile con le mani sul volante e a quindici centimetri da me una ragazza nigeriana seminuda schizzata come una tarantolata. Fuori, in piedi vicino alla mia macchina, un uomo in divisa più confuso che arrogante. A quel punto il carabiniere sceglie la tattica di cambiare tono e rivolgersi a me con modi più gentili: “scusi, riesce a calmarla?” Lisa stava dando il meglio di sé, mischiando inglese e italiano in modo sconnesso: “no lui pastor, lui cristiano, please lascia andare, lui no è cliente…” Chiesi se potevo lasciare le mani dal volante e l’appuntato mi diede il suo consenso, così cominciai a parlarle in inglese dicendole che tutto sarebbe andato bene e non l’avrebbero portata in caserma ne tantomeno rimpatriata. In realtà non sapevo minimente cosa sarebbe successo, fingevo spudoratamente di avere la situazione sotto controllo. Non era così, ma davanti ad una persona disperata è facile sembrare tranquilli. Dopo cinque minuti Lisa si calmò e di nuovo tornò quella voce nasale con le vocali aperte: “amiccooo! scendi dalla macchina!” Il momento di panico era finito e con lui anche il rispetto e le buone maniere. Quando si è deboli si è più umani. Stavo scendendo dalla macchina lentamente, o almeno a me sembrava, e mi passavano in mente le cose che avrei dovuto dire. Pensavo alla difficoltà di farmi credere. La verità è sempre l’ultima ad essere creduta, ma qui non potevo dare torto al carabiniere se non l’avesse fatto. Alla fine mi trovavo in macchina in piena notte, in un parcheggio isolato, con una ragazza nigeriana seminuda con il sedile abbassato. Situazione veramente ostica. Una volta sceso, devo aver passato la mano sulla barba e un po’ scoraggiato dalla mia evidente posizione di svantaggio dissi: “guardi, lei non ci crederà, ma posso spiegarle tutto…”. Mi rendevo conto che la mia frase sembrava estrapolata da una tipica commedia italiana degli anni settanta, era scontata e l’avrebbe detto chiunque, ma era l’unica cosa che in quel momento mi era venuta in mente per prendere tempo e cercare di mettere insieme delle cose sensate su una storia surreale. A mia sorpresa la risposta nasale fu: “eeee alloraaaa… spieghi, spieghi”. Cominciai subito col dire che ero un missionario, giusto per mettere le mani avanti, e dissi che erano ormai anni che bazzicavo quelle strade per assistere le ragazze vittime di tratta e che con loro pregavo, che le aiutavo quando stavano male portandole all’ospedale, consultori vari e poi ancora corsi d’italiano eccetera. Devo aver preso passione mentre raccontavo queste cose al carabiniere, mentre parlavo della situazione di schiavitù di queste ragazze, tanto che mi lasciava parlare a ruota libera. Gli ho detto che la ragazza sulla macchina stava male, aveva il mal di pancia e che all’indomani l’avrei portata all’ospedale. Ad un certo punto il carabiniere cominciava a guardarmi come si guarda un uomo. Io me ne accorgevo e raccontavo frammenti di storie di strada. Cominciò a farmi delle domande: “ma chi le porta di qui ste ragazze? Dove abitano? Dove stanno?…” Mi sembrava assurdo che mi chiedesse queste cose, perché come le so io che non sono un agente segreto, potrebbero, anzi dovrebbero, saperlo anche loro. Un atto di presunzione mi fece realizzare d’aver la situazione in mano, ero stato miracolosamente creduto e dovevo giocare le mie carte così dissi con una certa confidenza: “non posso dirvi dove abitano, adesso però devo andare a portare a casa questa ragazza che sta male, me la fate portare a casa vero?” Il lampeggiante blu continuava a passarci sui visi ma questa volta sembravano più carezze che schiaffi. La risposta fu calma: “sì, mi faccia vedere solo i suoi documenti, solo per registrare che abbiamo fatto dei controlli…sa com’è. La ragazza viene con lei”. Mentre il collega scriveva i miei dati, aggiunsi: “guardate che mi vedrete ancora sua questa strada”, come per ottenere una sorta di permesso a non essere fermato, e la risposta mi sorprese: “faccia pure, c’è bisogno di gente che fa del bene, anzi, grazie per quello che fa; può andare e buona notte” Con riconoscenza risposi dandogli la mano: “grazie davvero, buona notte”.