AltroveQui incontra K. ragazza nigeriana vittima di tratta

Primo incontro della serie “Randevù”, organizzato dall’associazione culturale AltroveQui di Besate in provincia di Milano.

Quanti di noi, percorrendo la Strada Provinciale 40 che collega Binasco a Melegnano, la cosiddetta “binasca”, hanno incrociato gli occhi di una delle ragazze che al calare del sole affiorano come dal nulla a punteggiare il ciglio della strada, con i loro corpi lucidi illuminati dal fiammeggiare di bidoni infuocati? Si passa veloci, chi non si ferma lancia un’occhiata, qualcuno s’indigna e si chiede come possano continuare ad esistere simili situazioni di degrado in una società che si dice civile; la maggior parte non ci fa nemmeno più caso, alza le spalle: “è normale”. Poi ognuno torna a casa propria le immagini e i pensieri si allontanano, svaniscono, abbiamo altro da fare, la questione non ci riguarda. Nel tratto di strada che separa Binasco da Siziano le ragazze che si incontrano sono tutte nigeriane e le loro vite vincolate a un comune filo conduttore, canale invisibile che da Benin City, una metropoli polverosa non lontana dal delta del Niger, le conduce in Europa, in Italia e le porta sino a noi, ai lati delle nostre strade. Si dice che la prostituzione sia il lavoro più antico del mondo, che nei paesi moderni le prestazioni sessuali a pagamento debbano essere riconosciute, accettate e assoggettate a controlli come qualsiasi altra libera professione; ma giusto o sbagliato che sia, qui non stiamo parlando di questo. Qui, è tutta un’altra cosa che il dibattito sulla legittimità alla prostituzione non sfiora nemmeno: le ragazze che vediamo passando dalla binasca non sono prostitute, sono prostituite. Prostituite significa obbligate alla prostituzione, assoggettate alla mercificazione del corpo da un groviglio di vincoli fisici, culturali e non di meno giuridici che ci vien più facile beffeggiare che comprendere. Nella sala consiliare del Comune di Besate, K. con il suo italiano colorato d’africa, le le mani strette in quelle di Isokè Aikpitanyi – vittima di tratta a sua volta e da anni attivista in prima linea impegnata nella lotta contro la tratta della prostituzione – la voce spezzata dall’emozione, racconta per la prima volta in pubblico la sua esperienza srotolando di fronte ai visi attoniti di chi ascolta, anni di giovane vita insozzati da una sporca menzogna, la promessa a cui da ragazza ingenua e piena di sogni ha creduto, quella di un lavoro nel mondo della moda e dello spettacolo, l’occasione unica di emigrare in Europa in cambio di una vita moderna e rispettabile che invece l’ha portata direttamente in strada, in uno spazio privo di dignità e di protezione, in un vuoto legislativo che l’ha gettata nell’oblio, rendendola corpo fantasma, trasparente alle autorità, alla società e al singolo individuo che non fosse cliente. K. racconta il suo viaggio verso l’italia; il passaporto che le viene consegnato appena prima di accedere all’area sorvegliata degli imbarchi riporta un nome di donna che non è il suo, si volta “questa non sono io”. Non ti preoccupare, ti serve solo per entrare nell’aereo, poi lo strappi, lo butti nel primo cestino, la non ti servirà. K. è confusa, ha paura, si rifiuta, fa un passo indietro: “perchè devo mentire?” “Se non hai coraggio vattene! manda tutto a monte! butta l’unica opportunità che hai tra le mani, dillo alla tua famiglia che hai gettato al vento i soldi che hanno speso per te! Fatti coraggio, sei giovane, ce la farai!” K. pensa a casa, alle promesse fatte, all’addio pieno di speranza, ai sogni ancora freschi da realizzare, raccoglie il coraggio e si fa forza, passa i controlli sotto gli occhi di guardie silenziosamente “distratte”, entra in quell’aereo e vola in Italia. Al suo arrivo il benvenuto le sarà servito in un CIE (centro di identificazione ed espulsione). Passano giorni interi, settimane di reclusione e silenzio come in carcere, nessuna notizia, nessun contatto con l’esterno finchè la porta si apre per K. E’ una donna a cercarla, una donna che lei non conosce, è la Mamàn, il suo cappio al collo. Le Mamàn sono donne d’affari, africane, spesso ex prostituite che attendono le ragazze al loro arrivo nel paese di destinazione. Si presentano come figure materne, benefattrici e protettrici ma in realtà sono tra i principali ganci su quali si impernia il meccanismo della tratta; ogni Mamàn accoglie nella propria casa una manciata di ragazze, gestisce i loro guadagni, si occupa del risarcimento del loro debito e ricorda loro costantemente il doppio vincolo che le lega all’organizzazione: il debito e il sigillo imposto con il rituale vudù. K. incontra la sua Mamàn: la donna ha un permesso “speciale” per accedere alla struttura, non hai mai visto la ragazza ma va a colpo sicuro; sa esattamente dove si trova, conosce il suo nome e la sua età, parla la sua stessa lingua, le guardie non ostacolano, può portarla con se per un’ora d’aria al di fuori dalle mura detentive; escono per una passeggiata e non faranno mai ritorno. K. scompare nel nulla e per le Autorità italiane sarà uno dei tanti casi da archiviare. Vieni, ti porto via da questo posto, starai con me a casa, starai bene vedrai e presto avrai il tuo lavoro. K. è diffidente ma sola, la Mamàn è gentile, le procura abiti caldi,  conosce casa e i luoghi della sua infanzia, K. si rilassa fa una doccia, finalmente una telefonata a casa per gettare sabbia sul fuoco della lunga attesa e dire che va tutto bene; la Mamàn a due passi sorveglia che non si dicano parole di troppo. Il giorno dopo K. sarà in strada, tacchi alti e gonna da vertigine. Isokè prende la parola e spiega che per poter pagare il viaggio, la predisposizione dei documenti e l’intermediazione del reclutatore, le ragazze e le rispettive famiglie si rivolgono alla stessa organizzazione criminale per ottenere prestiti per decine di migliaia di euro, cifre enormi di cui spesso i contraenti non percepiscono nemmeno l’entità. Il debito contratto al momento della partenza ha generalmente forma legale: si predispongono contratti ad hoc da firmare di fronte ad un notaio che prevedono per la firmataria l’accettazione di qualsiasi occupazione le sarà proposta e in caso di inadempienza, i creditori potranno rivalersi sulla famiglia, che normalmente impegna le poche ricchezze di cui dispone. Isokè continua e racconta qualcosa che per noi è più difficile comprendere. Nella sala consiliare del Comune di Besate le persone ascoltano – facce incredule – in un silenzio colmo di profondo rispetto. Isokè spiega che esiste un’altra forma di legame ancor più potente del debito pecuniario in virtù della portata emotiva che riveste. E’ il rito di benedizione che accompagna la partenza di ogni ragazza: il vudù. La famiglia ne ha bisogno, la tradizione lo pretende, la ragazza non può partire allo sbando, ha bisogno di protezione, di un legame che la vincoli nonostante la lontananza, alla sua terra e alla sua gente. E’ una sequenza di gesti ben precisa quella che ci racconta Isokè, una ritualità consolidata che si compie per mano di personaggi che godono del rispetto della comunità e a cui spesso viene attribuità autorità religiosa. C’è silenzio nella sala consiliare del Comune di Besate, c’è concentrazione mentre Isokè spiega che sangue mestruale, peli pubici e unghie, vengono raccolti ed elevati a simbolo di un’unione inscindibile tra la ragazza ed il suo impegno: hai lasciato in pegno al sacerdote parte del tuo corpo unitamente alla promessa di portare a compimento l’obiettivo a qualsiasi costo; il sacerdote è testimone della tua promessa e se vieni meno all’impegno pagherai con corpo e anima. Come una corda stretta intorno al collo, il rito vudù e il valore simbolico che assume vincola le ragazze terrorizzate all’idea della maledizione alla quale andrebbero incontro se venissero meno all’impegno preso. Questo legame invisibile, così forte e per noi così difficile da comprendere, unitamente al debito contratto al momento della partenza, alle minacce e alle violenze alle quali andrebbero incontro se dovessero tirarsi indietro, inchiodano letteralmente le ragazze alla strada e non lasciano spazio ad alcuna possibilità di ribellione. K. riprende la parola. L’emozione è forte: “è un inferno” dice, “un incubo da cui non puoi uscire: si lavora di giorno e di notte, sotto il sole o sotto la pioggia, nei 40 gradi dei pomeriggi estivi e nei -4 delle notti d’inverno. K. racconta che si fanno tanti soldi, c’è tanto lavoro, torni a casa stanca, stremata, svuotata, rimane giusto la forza per consegnare la piccola fortuna nelle mani della Mamàn e il giorno dopo si riprende, sette giorni su sette, ti spremono fino all’ultima goccia: devi ripagare il tuo debito, è tutto quello che conta. Voi passate, continua K. e tutto ciò che i vostri occhi vedono sono ragazze sfrontate che sorridono e ammiccano. Non avete idea dell’inferno che c’è dietro. E’ schiavitù proiettata nel nuovo millennio. Trovare il coraggio di andarsene è difficilissimo perché ciò che ti aspetta sono minacce continue, assalti, violenza e alcune ragazze non hanno più fatto ritorno, i loro corpi ritrovati giorni dopo, in un fossato o dietro ad un ponte. Non c’è protezione per noi, siamo clandestine. Per comprendere il peso della minaccia si pensi che in base ad alcune statistiche sarebbero 500 in 15 anni, le ragazze nigeriane uccise in seguito a tentativi di ribellione ed abbandono della strada, per mano della criminalità organizzata che sostiene il meccanismo della tratta della prostituzione, mentre non è possibile stimare i casi di violenza sommersa, mai denunciati per l’impossibilità di accedere ai servizi di tutela pubblica da parte di ragazze che non possiedono il permesso di soggiorno. K. è una ragazza forte, dice Diego Cassinelli, educatore di strada ed amico che le siede accanto; K. ne è uscita, ha finalmente abbandonato la strada tra minacce e persecuzioni, ma non dimentichiamoci che per una ragazza che esce dal girone infernale della tratta, ce ne sono decine che entrano. Non dobbiamo abbassare la guardia, non dobbiamo accettare in silenzio e nell’indifferenza, non possiamo pensare che sia “normale” e invitando la cittadinanza a reagire lancia un messaggio: ”Riprendiamoci la nostra umanità per ridare bellezza alla vita”. La serata si conclude, la gente attonita si guarda in faccia, K. si lascia andare in un abbraccio lungo con la compagna Isokè, uno sguardo d’intesa che ripercorre in un secondo anni di sofferenza profonda. Scoppia un applauso lungo, che rompe il silenzio incredulo per ringraziare K. che a Besate, tra le mura di una sala consiliare ha avuto la forza di raccontare il suo inferno e quello di mille altre ragazze, legittimato dal silenzio e dall’indifferenza delle istituzioni, della società e anche dal nostro.

(Aurora Bossi. Associazione Culturale AltroveQui)