Era un pomeriggio di metà settimana e il cielo stava rovesciando il mare atterra. Mi trovavo sull’autobus imbottigliato nel traffico, sulla strada che da Bauleni porta al centro della città. Tutto paralizzato, niente da invidiare al traffico di Milano. Avevo un appuntamento per le due, ma alle tre mi trovavo ancora pressato contro il finestrino zuppo di condensa di un autobus che non si muoveva. Una volta arrivato nel centro di Lusaka, mi libero dalla mia prigione di latta e comincio a camminare velocemente verso i portici di Cairo Road, per ripararmi dalla pioggia. Con uno scatto veloce porto il telefono all’orecchio per giustificare il ritardo, e con un’altra mossa ingenua lo metto nella tasca destra della felpa bianca e inzuppata d’acqua color smog. La pioggia continuava a cadere forte, mentre aspettavo una tregua dal cielo, sotto quelle lunghe verande di negozi affollate di gente paziente e abituata a fare i conti con nuvole nere.
Cammino tra spinte di corpi che si toccano senza volerlo, e mi faccio strada tra una calca di colori e di voci così intensi da lasciar storditi.
Tra il caos mi trovo davanti ad una scena, l’unica ad aver contorni nitidi. Due uomini stavano discutendo animatamente per essere entrati in collisione in quel mare di meteore umane. Forse un contatto più energico del solito, o forse un “oh, mi scusi” non detto seguito da una frase con troppi punti esclamativi, ma sta di fatto che, quel giorno, camminare in Cairo Road e non voler essere urati sarebbe stato come entrare in una stalla e pretendere di uscire con le scarpe pulite. Mi fermo e guardo la scena incuriosito perché mi sembrava tutto così starno; e infatti lo era. Solo dopo, con il senno di poi, ho capito che quella pantomima teatrale, era una scenetta studiata per attirare l’attenzione di passanti poco esperti e ingenui; e com’è brutto realizzare di essere quel passante! La gente si fermava anche per un secondo per assistere a ciò che le stava accadendo davanti, creando un ingorgo da attraversare strisciandocisi dentro. Mi fermai un attimo, il tempo di guardare e poi ripresi subito il flusso della corrente umana che andava verso la fine della veranda. Tra i tanti, sento urto in particolare, seguito da una frase che suonava gentile, ma in realtà era una presa in giro: “ops, mi scusi, sa è meglio sempre chiedere scusa quando si urta una persona, altrimenti vede cosa succede…non è vero?”, puntando il dito verso la disputa dei due attori. Urto insolito, che mi ha svegliato dal mio sonno da ingenuo. Subito, porto la mano alla tasca destra, proprio dove sono stato colpito, proprio dove riposava il mio telefonino. Un uomo distinto sui trent’anni, con giacca chiara e spalle curve. Una faccia ruvida come la cartapesta e scura come le nuvole di quel giorno di pioggia. Una sagoma alta e magra con mani fini da non farsi sentire, che si mischiava nella folla e spariva sotto i miei occhi vuoti come la mia tasca destra; il mio telefonino se ne andava con lui in quell’impasto di colori umani che si muovevano come api su un alveare. Il suo passo di volpe mi aveva lasciato sul posto, fermo come chi non sa quale pedina muovere sulla scacchiera. Fermo come chi sa di aver perso. In una manciata di secondi, la presunzione di essere uno “street man”, di sapermi muovere nella jungla urbana tra la gente di strada, aveva perso forma e angoli, come una pista di biglie sulla spiaggia dopo una carezza leggera di un’onda. Rimaneva la struttura, ma aveva perso i contorni e gli spigoli.
È così che ho perso il telefono e con lui una malsana e eccessiva sicurezza, con una mano leggera come il movimento di un mare calmo sulla sabbia.
L’uomo che conosce i suoi limiti cresce, ma al momento vede la felicità lontana.
Uno sciame di soluzioni mi paralizzavano il pensiero, e così camminavo senza meta in attesa di riordinare la mente. L’appuntamento era irrimediabilmente perso, senza telefono non avrei mai potuto trovare la persona che mi attendeva. Avevo fame, freddo e voglia di sedermi in silenzio. Entrai in un fast-food, con lo sguardo fisso sul tabellone pieno di hamburger, patatine e cosce di pollo fritte, ma niente mi attirava in quel momento, così per temporeggiare andai in bagno.
Uscii subito da quel posto che odorava di fritto. L’odore dei fast-food è uguale ovunque, e in lampo di nostalgia durata meno di un secondo la mente sorrideva ai profumi mediterranei di un ristorante in Liguria. Una vera celebrazione di aromi che s’infrangeva con una realtà lontana migliaia di chilometri e mi ributtava alla mia tasca destra vuota. Non era il telefonino a mancarmi, era l’orgoglio che bruciava come una strisciata d’ortica su pelle tenera, così me ne stavo sull’angolo di Cairo Road, dove due verande si incontrano come vecchie amiche, a guardare le gocce cadere da una lamiera verde militare.
Un tocco di mano più rude si appoggia proprio sull’osso del mio gomito e senza alzare la testa per guardare il volto di chi chiede attenzione, porto gli occhi direttamente al punto in cui sono stato toccato. Non potevo crederci, sul palmo della mano tozza e sporca era appoggiato come un soprammobile su legno scuro il mio telefonino bianco e rosso. Alzo immediatamente gli occhi e li pianto come un chiodo nel muro in quelli dell’uomo che me lo porgeva. Con un gesto di nervi tesi presi il telefonino da quella mano che non si darebbe comunque chiusa per trattenerlo, mentre tenevo gli occhi su quella faccia tonda con baffi color sale e pepe. L’uomo sulla sessantina era basso e tarchiato ed aveva un cappello blu che copriva una fronte probabilmente stempiata. Sentivo un sensazione mista, come un crocevia tra stupore e rabbia. Chiesi dove avesse trovato quel telefono e lui con voce roca consumata dall’alcol, si inventò la sua storia. Mi disse che aveva visto la scena, e che aveva provato compassione per questo muzungu (uomo bianco) e così è andato dal borseggiatore e si è fatto dare il telefono. Oltre ad essere poco credibile, l’uomo era completamente ubriaco e mi chiedeva in cambio un bicchiere, così, giusto per ricambiare la gentilezza. Lo afferrai per il braccio e strinsi forte tirandolo verso dalla mia parte. Dissi con voce forte di venire come, e l’uomo senza nome si scusò in un inglese comprensibile e scappò via tra le ultime gocce di pioggia. Io non potevo crederci: avevo tra le mani il telefono che dieci minuti prima mi era stato rubato. Non mi era mai successa una cosa del genere, e confuso me ne andavo verso il primo bus. Camminavo veloce e penso di aver avuto l’aria di chi ha assistito ad un miracolo, poi una voce ha fatto eco sotto la veranda ormai vuota: “hai trovato quello che cercavi?” Mi voltai di scatto verso quelle lettere pronunciate con sicurezza e vidi un ragazzo alto che vendeva cinture e magliette taroccate vicino ad una vetrina. Aveva tra le mani una polo rosa con rughe nere e una cintura penzolava in tutta la sua lunghezza dalla mano sinistra. Il senso di confusione accresceva nella mia testa e così, come un cowboy che non ha più proiettili da sparare dissi: “che cosa?”. Tra i denti bianchi di quel ragazzo filtrarono della parole che danzavano divertite, probabilmente per la mia espressione non proprio intelligente: “sì, il tuo cellulare!”. Mi sono sentito come Jim Carrey nel film Truman show: tutti sapevano tutto tranne me! Come diavolo facesse a sapere del mio telefonino quell’ambulante che non avevo mai vito prima. “E tu come fai a saperlo?!” risposi completamente disarmato. Affianco a lui altri ragazzi sulla ventina d’anni se la ridevano portando la mano alla bocca, per non mancarmi di rispetto, ma la scena dev’essere stata proprio comica e non riuscivano a bloccare tra le dita la forza della loro risata. Il ragazzo bruno e slanciato mi spiazzò definitivamente con una “non risposta”: “ricordati che questa è Cairo Road, è Lusaka; stai attento la prossima volta!”.
Avevo imparato un lezione importante, data da un ragazzino ambulante che vendeva magliette cinesi davanti ad una vetrina di un qualsiasi negozio del centro di Lusaka. Subivo colpo dopo colpo, ma l’entusiasmo di aver ancora il mio telefono in tasca non mi permetteva di cadere definitivamente, così, preso dalle sete di capire, di dare un senso a questa storia che diventava sempre più assurda, chiesi ridendo, forse di me stesso: “senti, spiegami una cosa; che senso ha rubarmi il telefono e dopo dieci minuti farmelo riavere?”
Il ragazzo si fece serio per un attimo, come per ricomporsi, come se stesse per dire qualcosa di ufficiale e importante. Si fregò il naso con la mano occupata dalla cintura, facendola oscillare come un serpente morto e disse: “guarda che qui, su questa strada, qualcuno ti conosce”.
Il colpo finale era stato sferrato. Non avevo capito niente di quella città, di quello che stava succedendo a mia insaputa, delle dinamiche che abitano le strade di Lusaka. La strada si fa conoscere pian piano, e chiede a volte un conto salato e altre volte invece qualcun altro lo chiude al posto tuo. In Cairo Road, un qualcuno senza nome e senza volto ha saldato il mio conto, permettendomi di imparare una lezione gratuitamente.
Tornato a casa guardavo il mio telefonino bianco e rosso come un mistero, un profondo senso di gratitudine che aumentava dentro e non mi faceva dormire.
Le parole non bastano per descrivere la danza di sentimenti che si intrecciano e come una glicine s’arrampicano sino alla gola. Mi sento pieno di fiori colorati e il profumo mi fa sognare più forte. Sogno alto con l’entusiasmo di un folle.
Ancora oggi, a distanza di tempo, non so chi sia stato a garantire per me.
Quando frequenti la strada, quando non hai paura della gente che la vive, quando la incontri e le stringi la mano con un sorriso, quando scambi parole gentili e dimostri che, a modo tuo, le vuoi bene, quando credi che non stai facendo nulla di speciale per loro, niente di importante, nessun progetto con grandi finanziamenti; ecco che la stai incontrando davvero. La gente va incontrata, sempre. Ho capito che il dono più grande che ho ricevuto è quello di voler incontrare, di stringere mani e regalare sorrisi. Questo è il passe-partout che permette di entrare nella vita della gente, nella loro storia anche in zone che molti considerano “a rischio”. Vale la pena! Vale assolutamente la pena essere preseti, tessere relazioni, sentirsi presi in causa nella vita delle persone, sentirsi fratello e sorella di tutti. Vale la pena di vivere la strada, in ogni paese di questo pianeta, in una Cairo Road di qualsiasi città del mondo.