È sabato pomeriggio, un giorno di sole e di vento. Dopo una giornata di lavoro e cammino, mi metto comodo sul divano di erba intrecciata. Mi godo attimi di silenzio mentre stringo un libro tra mani indecise se aprirlo o fermarsi alla copertina. Sono minuti piacevoli quando discerni su cose non importanti. Il vento attraversava i due locali senza chiedere permesso. Quei nove passi di casa percorsi da una corrente che accarezzava la mia stanchezza. A volte stanchezza e felicità sono amiche. Nel compound non esiste silenzio, l’unico possibile da sperimentare è quello dettato dalla mancanza di parole. Silenzio è fare silenzio, ed io ero zitto, ascoltando il rumore degli altri. I muscoli si stavano appena rilassando quando la suoneria del telefono li ha costretti a contrarsi nello sforzo di rialzarmi per rispondere. Non lo sapevo ancora, ma il mio momento di gloria sul divano era appena finito. Uno dei nostri ragazzini della squadra di basket, Joseph, si era spezzato il polso, e Bright, l’allenatore, lo aveva accompagnato all’ospedale pagando di tasca sua un taxi. Non aveva più soldi per pagare le varie visite, così ha pensato di farmi uno squillo. La voce di Bright era bassa e preoccupata, e le distorsioni della rete la rendevano ancora più cupa. Un giro di chiave, porta alle spalle, e di nuovo ingrovigliato nella giungla urbana di rumori. Il taxi correva nel traffico di Lusaka, mentre il sole si faceva basso e rosso. Al cancello dell’ospedale governativo c’era Bright ad aspettarmi, con sguardo serio e con la sua solita postura da rapper. Joseph era sdraiato su una panchina di legno consumata dal tempo. Alternava smorfie di dolore con momenti di calma che assomigliavano al sonno, mentre noi, appiccicavamo le nostre parole al vetro sporco della ricevitoria.
Uno sguardo alle lastre e poi il verdetto: “ricoverato!”.
Il telefono della madre di Joseph era spento, quello del papà era acceso ma lui era ubriaco. La notte era nostra. È stata una decisione presa in silenzio, prima ancora di sapere che non ci sarebbe stato nessuno seduto a fianco del letto del ragazzino. È stato naturale. Per scegliere serve sempre pensare, ma a volte l’intensità del pensiero si concentra in pochi secondi e si confonde con istinto. L’operazione era fissata per le 21:00, salvo imprevisti. La maggior parte dei dottori che ho incontrato, non smentisce l’idea che ho di loro, e due dei tre incontrati quella notte non han fatto che confermare. Lo status di medico a volte rovina, soprattutto quando smettono di essere uomini per rimanere solo dottori.
Chi ha fatto la differenza è un medico donna, che avevo incontrato in casa di amici italiani una sera. Ci siamo riconosciuti tra il mio camminare a vuoto e il suo sfogliar cartelle. Si è presa cura del nostro ragazzo come se lo conoscesse da anni. Una donna non particolarmente abile in comunicazione, timida e tecnica insieme, ma vicino alla situazione della gente. Umanità: ecco la descrizione in una parola. Forse perché è donna e madre, o forse, perché sa che il suo non è solo un lavoro. L’attività principale di una persona che sta vicino a un malato è aspettare. È una continua attesa; attesa che gli facciano le lastre, che escano i risultati, che lo portino in sala operatoria, attesa che esca, che si svegli dall’anestesia. Attesa che dica qualcosa. Attesa che sorga il sole, e nell’attesa si osservano le cose.
Ho sempre visto la realtà dalla latitudine della mia casa nel compound. Vedevo le cause e gli effetti parziali che iniziavano e finivano li, nel ghetto. In una notte di attesa è cominciata una tetra sfilata di dolore, contraddistinta dal colore rosso scuro del sangue che mi ha mostrato altro. Quello che non vedevo. Era tutto calmo dopo le 21:00, quando un grido improvviso ha stracciato il silenzio come un foglio da un quaderno. Affilato e freddo come l’acciaio di un coltello che s’infila nella carne. Una donna piangeva il suo uomo, morto per motivi che non so e non saprò mai. Se ne andato lasciandola ancora giovane e spossata dalle lacrime. Se ne andato, lasciandola sola con la disperazione accanto. Sola con le sue grida.
Dopo dieci minuti, con l’eco del pianto ancora nelle orecchie, un taxi ha portato una donna ripiegata su se stessa con la faccia sfigurata. Un’amica raccontava l’accaduto. Picchiata dal marito, da chi un giorno le aveva promesso amore: “prometto di amarti e rispettarti nella gioia e nel dolore….ecc ecc”. Quella sera l’amore è stato dimenticato, e il rispetto ha preso voce di tonfi, colpi affondati su ossa e pelle che si spaccano. La gioia è stata barattata con un’abbondate dose di dolore dal sapore di ferro. Quel che restava dell’umanità, entrava dalle porte grigie e spalancate del pronto soccorso, lasciando sul pavimento tracce del proprio dolore. Gocce di sangue, come tasselli di un mosaico senza un vero disegno da completare. Forme senza senso pronte a essere cancellate con un colpo di straccio, per ricominciare lo stesso rito la notte seguente. File di macchine continuavano la loro processione, vomitando sull’asfalto dell’ingresso storie finite male. Uomini ubriachi con occhi gonfi, labbra spaccate, teste fasciate con pezzi di stoffa per chiudere ferite, e ancora donne picchiate per “eccesso d’amore” per quella promessa tradita. Un congolese rimasto con un occhio solo, perso in una rissa perché colpito da una palla da bigliardo. Coppie finite per incidenti stradali, lui steso e freddo su un lettino e lei in stato di shock; una condizione che la protegge dal troppo dolore.
È sabato notte e il nostro ragazzo dorme di sonno chimico, gli effetti dell’anestesia che lo rendono immune a tutto quello che gli sta succedendo attorno. È l’una e gli occhi cominciano a bruciare, è il pizzico del sonno lascia un’espressione poco intelligente, disturbando il bianco degli occhi. Da fuori si sentono avvicinarsi voci strozzate in gola dallo sforzo, sino a mostrarne i volti. Quattro ragazzi portavano un corpo di donna reso vivo solo da gemiti sottili. Il sangue cadeva sul pavimento liscio e grigiastro, ma non si capiva da quale parte uscisse. La quantità di sangue perso era impressionante. Sul corpo della donna, sui vestiti dei ragazzi che la tenevano a peso morto, sul camioncino che l’ha portata all’ospedale e sul pavimento.
La gente incuriosita si avvicinava alla donna con smorfie dispiaciute, lanciando un commento o solo un verso, chi di dolore, chi di compassione e chi di disapprovazione. Il dolore incuriosisce l’essere umano. Il sangue sparso provoca emozioni contrastanti, attrae e respinge allo stesso tempo. Nella confusione composta sento il mio nome: Mwanza! Così mi chiamano a Bauleni. Era un ragazzo del mio compound, erano tutti del mio compound, anche la giovane donna. Era stata “accoltellata” più volte con una bottiglia di bitta rotta, nel posto in cui si concentrano i bar del ghetto. Il fatto più violento di quella notte, era stato compiuto a Bauleni, non molto lontano dalla mia casa. Io e Bright ci guardavamo con occhi stanchi ma non più assonnati. Il sonno era uscito all’entrata della donna moribonda. Dolore e sonno a fatica condividono lo stesso spazio. Le quattro del mattino arrivarono, portando con sé un attimo di calma e quel po’ di sonno che aveva lasciato i nostri occhi aperti. Restavamo la, seduti in dormiveglia aspettando il sole che, come un antidoto, si portasse via tutto il veleno della notte. Restavamo la, seduti su sedie scomode aspettando di portare a casa il nostro ragazzo e lasciarci alle spalle la notte prima della domenica.