Tre del pomeriggio, il personale di bordo apre le porte dell’aereo e in un istante l’aria fredda condizionata si ammorbidisce e si scalda. E’ l’aria d’Africa (mi dico) e attendo il mio turno per vedere il cielo. Io e la mariuccia, la mariuccia ed io due zaini in spalla, pesanti, i piedi che scendono ad uno ad uno i gradini della scaletta che ci collega a terra e finalmente tocco il suolo. Io e la mariuccia in una terra nuova, nell’emisfero opposto, dove la luna è capovolta e l’acqua nello scarico del rubinetto gira al contrario. Senza dire una parola, sfatte dal viaggio, sorriso ebete, ci incamminiamo verso una nuova esperienza.
I tempi per ottenere il visto non sono brevi, ci armiamo di pazienza fino all’arrivo del nostro turno, impronte digitali da scansionare e soldi da lasciare in pegno, ma tutto si fa e arriva anche il nostro momento. Passaporto, timbro, si paga e si va. Dall’altra parte delle porte ad apertura automatica c’è il Diego che ci aspetta!
Welcome to Zambia! In un secondo saltiamo sull’auto di Clement il tassista, bianca come i denti, pulita e ordinata con copri-sedili di pizzo candido, i bagagli pieni pressati nel retro e via verso Bauleni che sino ad oggi avevo visto solo attraverso lo schermo del mio PC.
La strada è dritta, confini sfumati dal rosso intenso della terra, l’auto corre veloce sotto un cielo turchese e nuvole di zucchero filato e la testa che viaggia, viaggia, viaggia. Si guida a destra, come in Inghilterra. L’auto gira a sinistra, curva a gomito e procede; a destra un estensione enorme di tante croci affogate nelle sterpaglie, chiedo cos’è? un cimitero. Si procede, case bianche orlate da siepi di bouganville, acacie viola in piena fioritura e manghi che maturano al sole. Bellezza. Gente in cammino ai lati delle carreggiate. La strada scende ed entra in Bauleni, uno dei 23 Compound della città di Lusaka, 35.000 persone in un triangolo di terra dai lati lunghi 1 kilometro e due. L’impatto è uno schiaffo in faccia, nonostante la preparazione, nonostante i racconti, nonostante le foto, nonostante i buoni propositi e la forza che credi di avere, l’impatto lascia storditi: vita brulicante al crepuscolo, scorribande di bambini, bambini a grappoli e mamme dagli occhi profondi, madri. Odori e vialetti di terra battuta, bracieri che scaldano la loro pancia di carbone in attesa della marmitta della sera. Il sole sale presto al mattino e scende presto la sera. Luna e stelle sfavillanti, vicine, più vicine rispetto alle nostre latitudini. Bellezza. E alterità. Mi sento distante mille anni luci dal mio mondo e la distanza, srotolata di fronte, fa paura.
Per festeggiare il nostro arrivo facciamo cena con Diego, Ethel, Berta, Mariella e Davide, due ragazzi arrivati in bicicletta da Kampala. Davide fa una corsa contro il tempo per riuscire a cucinare due spaghetti sulla piastra elettrica; è giorno di “load-shedding”, giorno in cui la corrente viene sottratta al compound per essere venduta all’estero. Solo i compound però, la città e i suoi quartieri ricchi rimangono illuminati. Lo sapevo, ne ero al corrente, ma ancora una volta vivere non è come sentir dire.
Arriva un piatto di spaghetti con pomodoro e piselli, buonissimi ma lo stomaco è chiuso. Vino sudafricano a sciogliere le membra. Troppa stanchezza, troppe immagini negli occhi. Si cena intimi a lume di candela, nonostante il black out la musica non manca, la gente è attrezzata. Prassi. Ci avviamo verso casa, la casa dove vivremo per il prossimo mese. Niente luce, niente acqua, il bagno è fuori. Lavo i denti, infilo il pigiama e parte una notte di sonno che mi riporterà il sorriso.