La casa, che quando sei a casa sembra quasi un ingombro: devi pulire, sistemare, riordinare e quello che hai attorno non lo vedi nemmeno più. Troppe cose, mai spazio a sufficienza. La casa che funziona da sola: l’acqua che scende dal rubinetto, la lavatrice lava i panni, la lavastoviglie lava i piatti, lo scaldabagno scalda l’acqua e la luce…. la luce.
Qui la casa aiuta, si, ma meno.
La prima notte nel compound è stata disarmante. Nel vero senso del termine ci ha lasciate senza “armi”. Niente luce per cercare il pigiama, niente acqua per lavare i denti, niente bagno per fare la pipì se non la latrina, fuori, nel buio più totale. La prossimità con i vicini è altra cosa con cui non avevamo fatto i conti: la condivisione degli spazi e dei beni primari – acqua e aria – il rispetto per lo svolgersi della vita altrui dall’altra parte del muro. I rumori, i pianti dei bimbi, i latrati dei cani, l’odore acre di fumo dei mucchi di rifiuti che bruciano ai bordi della strada e negli angoli dei cortili. I nostri spazi privati sono altra cosa. La dimensione individuale, a noi tanto sacra, qui è messa a dura prova. La mattina del secondo giorno Diego ci trova più riposate, un sorriso largo sul viso ma ancora sconcerto negli occhi: “cià dai – dice – vi porto a fare una colazione all’occidentale che vi ripigliate un po’. Facciamo le cose step by step – pangono pangono (in lingua Nyanja). Una mazzata al mio orgoglio da viaggiatrice-che-sa-adattarsi, doppio rospo da ingoiare perché mi trovo ad accettare di buon grado. E la sensazione mi riporta indietro ad un viaggio in Laos fatto qualche anno fa, quando certa di aver lavorato su me stessa per spogliarmi il più possibile dal mio “eurocentrismo” endemico, mi scoprivo a sorprendermi del fatto che nessuno mi cercasse soldi o mi notasse per strada. Senso di imbarazzo, quell’imbarazzo intimo e profondo che ti rimette al tuo posto. Zikomo* Zambia, Zikomo Laos.
Facciamo colazione ai lati della strada principale in un bar che assomiglia ai nostri, a ridosso di un supermercato che assomiglia ai nostri. C’è movimento, la gente vive – come a casa – lavora, si ferma per pranzo, ritorna al lavoro, va in banca. Le commesse dei negozi sono belle di ebano, ben vestite, tacchi alti, trucco. Come a casa. Assorbo il mio succo di mango delizioso e intanto si accende dentro voglia di altro, di gente, di uscire nella vita che sta dietro. Facciamo la spesa nel supermercato: 15 euro per quattro scatolette di pomodoro a cubetti; li ho acquistati di getto, senza badare al prezzo pensando che a casa costano si e no un euro alla “tolla”. Altra ragione per sentirmi stupida, piccola, presuntuosa, sprovveduta, maccherona. Si riparte, via per strada con Clement e la macchina bianco-denti ad acquistare le cose che mancano per creare una “normalità” domestica. Acquistiamo un treppiedi di ferro con un secchio e un catino che servono da lavabo – ingegno dettato dalla necessità – sarà il nostro lavandino in casa. Uno spazzolino da water, degli stracci per pulire, un bagnoschiuma, pile per una torcia.
Entriamo in città per una via che è un laboratorio a cielo aperto: falegnami, impagliatori, fabbri, carpentieri, riparatori di ogni sorta, un “lusso” che a casa non ci possiamo più permettere perché il costo del lavoro rende diseconomica la riparazione ed inaccessibile l’opera artigiana. Passiamo per i grandi alberghi, le ambasciate, la sede delle nazioni unite – chiusa all’interno di una murata alta come quella di un castello con filo spinato – la cattedrale di Lusaka, i giardini, i viali alberati, sino a Cairo Road, il cuore della città.
Riconosco la frenesia che differenzia la città dai suoi sobborghi.
Ci fermiamo in una gelateria italiana, per un gelato vero che Clement assaggia per la prima volta. Leggo nei suoi occhi sorpresa, delizia e piacere: vorrei che il mio paese, così disperatamente bello, fosse sempre rappresentato da cose che suscitano queste sensazioni, che fanno brillare gli occhi. Purtroppo non è sempre così.
Al rientro a casa ci mettiamo sotto per riordinare, pulire, riorganizzare. Le donne sedute attorno alla fonte d’acqua guardano con aria sorpresa e sorridono. Mi chiedo che cosa sia ad incuriosirle e un attimo dopo mi rendo conto che stiamo riorganizzando una casa zambiana in una casa più italiana. E questo da fuori si vede. Quante volte lo vediamo fare ai nostri vicini o ai vicini dei nostri vicini che vengono da lontano trasportando bagagli e famiglie intere: la nostra reazione è difficilmente quella delle donne che mi sorridono incuriosite.
La sera scende presto e la casa suona più familiare. Ci diamo una sciacquata al buio mentre le stelle in cielo brillano di una luce che lascia a naso in su. Non è che a casa sia diverso: a casa la luce vera è affievolita dall’abbondanza di luce artificiale. Laviamo i denti nel lavandino nuovo di zecca, ci infiliamo nelle lenzuola riorganizzate, protette dalla zanzariera anti-malaria e la notte africana ci risucchia nel suo grembo tiepido.