Un gesto semplice, fatto per strada, tra i murales di un parchetto e le vecchie case di ringhiera dei Navigli. Attorno, mille luci spavalde che pretendono inutilmente di rubare il posto al sole e il tentativo di silenzio di una città che non sa tacere. Sono gesti che escono dagli schemi. Un uomo e una donna che si lavano i piedi reciprocamente su un marciapiede di Milano.
E’ la stessa stranezza che deve aver provocato Gesù di Nazareth quando lo ha fatto ai suoi discepoli. Sono segni davvero capaci di mettere in discussione, di provocare, di immaginare un nuovo “possibile” da realizzare. Rompere le righe e le sicurezze. Forse solo adesso riesco a sfiorare ciò che don Tonino diceva molti anni fa: “Ritorniamo al potere dei segni invece dei segni del potere”. Perché sulla strada questa “liturgia” diventa più vicina, diventa più comprensibile? C’è qualcosa che non si può capire se non sulla strada.
Forse perché è impastata con la vita. Diventa vita. Non è qualcosa di estraneo da compiere solo in certe occasioni, in certi posti, con certe “coreografie”. Non sto togliendo valore a ciò che da due millenni si compie e si prepara nelle chiese di tutto il mondo. Dico solo che ci siamo dimenticati il luogo prediletto per eccellenza. E’ come se Dio avesse trovato casa e si fosse messo comodo, sul suo divano, con il telecomando in mano. Abbiamo tolto forse a Dio il permesso di viaggiare? L’abbiamo messo in pensione?
Stai qui Dio, non è più tempo di fare quello che facevi una volta! Il tratto nomade caratteristico di Dio è andato perduto?
Ma che! Dio è un gitano vagabondo e la sua roulotte può ancora percorrere le strade del mondo. Non ci crediamo più? Questo è il vero peccato! Basta scendere in strada e buttare le nostre sicurezze per tentare di crederci ancora. Pensiamo di proteggerlo togliendolo dai crocicchi delle strade, dai marciapiedi delle stazioni. Ma Dio è un cantastorie spettinato e il suo canto e la sua fantasia sono doni che sfuggono alle segregazioni, ai confini e alle reclusioni che tentiamo inutilmente di imporgli. Il suo posto non è uno. Il suo posto è ovunque ci siano donne e uomini che tentano di abitare l’esperienza del vivere.
Stai chiuso nel tabernacolo Dio, lì nessuno ti oltraggerà. Ma chi ha detto che Dio non vuole immischiarsi con l’umanità?! Dio si vuole ancora sporcare di umano! Dio scivola via dalle pretese di monopolio e di protezione e torna a danzare scalzo come un circense inquieto nei viali e nei mercati rionali, tra pozzanghere e fango, tra suoni di clacson e richiami di venditori ambulanti, tra puzza di fritto, profumi di dolci e odore di vita. E’ il Dio senzatetto di cui, forse, oggi ci vergogniamo un po’!
E’ la follia di Dio! Quella follia che non abbiamo il coraggio di riconoscere per paura di essere irriverenti. Ci siamo dimenticati che Tu sei stato preghiera per chi non poteva accedere al tempio. Ci siamo dimenticati che il vento non rispetta i semafori e le precedenze, ma accarezza tutto quello che incontra, palazzi, capanne, città e autostrade, campagne di granturco, risaie e pioppeti. Dove sono finiti i ricordi delle tue “liturgie” di strada?
Mi illudo a credere che si possa ritornare all’essenziale?
Il mio non è un moto di ribellione né tanto meno un rifiuto categorico della tradizione.E’ solo il tentativo maldestro ma consapevole di vivere un Dio che chiama dalla polvere e dall’asfalto. Un Dio che sa bagnarsi di pioggia e di sudore. Un Dio che sa ancora sedersi per terra a raccontare la vita a chi lo ascolta. E’ il Dio dei cortili pieni di gente che prega all’aperto, perché le case sono troppo piccole per contenere la debolezza e la fragilità di quell’alito di vita.
Sto facendo poesia? Forse, ma non sto inventando nulla. E’ “colpa” di questo Dio poeta che si è immaginato un cielo con la Luna e le Stelle.