Rifletto sul senso della mia presenza qui a Bauleni: cammino per le strade di un posto che qui si chiama ghetto. Qui, e anche a casa. Condizioni economiche al limite della sussistenza, disagio sociale, micro criminalità, migliaia di famiglie vivono sotto la soglia della povertà.
E io cammino con il mio zaino Eastpack, il mio Mac nella sacca, la macchina fotografica, i miei sandali Teva, i soldi in tasca, per le strade polverose di questo triangolo di 35000 persone e nessuno, nessuno osa importunarmi, non un singolo mi chiede di andarmene.
Cammino e la gente mi osserva passare dalle verande rosse delle case di terra cruda e blocchi grezzi di cemento pressato. Alcuni salutano, i bambini corrono incontro incuriositi. Mi chiedo se tutti sti piccoli la sera hanno qualcuno da cui tornare. L’approccio misericordista che ho assorbito a casa si innesta in automatico e mi impone la visione “classica” del piccolo povero orfano abbandonato. La realtà è diversa: apprendo che non ci sono orfani nel compound. O meglio, i bimbi senza genitori sono tanti – l’aspettativa media di vita si dice non superi i 40 anni – ma la famiglia qui è ampia, è allargata, e un bimbo che nasce è figlio di tutta la famiglia, non solo dei genitori stretti. Tutti condividono la responsabilità della sopravvivenza: la continuità in grembo alle nuove generazioni. Arrossisco in silenzio e per un secondo mi chiudo le mani sul viso come fanno i bimbi, di fronte alla consapevolezza di aver aderito ad uno stereotipo. Uno dei tanti che in un modo o nell’altro plasmano la nostra capacità critica.
La mamma non è una sola come da noi: i bambini chiamano “mama” la sorella, la zia, la cugina, anche l’amica e quando il calore della madre sanguigna si spegne ci sono altri grembi caldi e pronti. Non sarà uguale, certo, ma meglio del vuoto o dell’etichetta di orfano tatuata a pelle per la vita intera. Mi viene in mente che l’Africa è Madre.
Rifletto ancora e trovo questa cosa bellissima: alzo gli occhi dalle dita dei piedi che fanno pressione e mi tengono bene in equilibrio e improvvisamente la riesco a vedere, tutta intera, la famiglia. I bambini sono della famiglia intera e la famiglia, nella sua unità è forza che resiste alla morte, all’abbandono, alla TBC all’HIV, alla malaria, a tutte le insidie. L’unione è forza e la famiglia diventa corazza inespugnabile.
Sono i miei primi passi verso il rispetto profondo che arriverò a provare per questa comunità.