Il piccolo ufficio della In & Out of the Ghetto è quanto di più polivalente io abbia mai visto: è ufficio, magazzino, laboratorio, sala riunioni, aula e all’occorrenza ambulatorio medico; il tutto in meno di 20 metri quadrati.
Lunedì pomeriggio tra i miei studenti d’italiano pressati sulla panca di paglia intrecciata, c’era una ragazza nuova con il suo bambino di cinque mesi. Seduta composta con il piccolo avvolto nel “chitenge”* ascoltava in silenzio una lingua che non è la sua e attendeva con pazienza l’arrivo del medico ortopedico per il bimbo nato con una malformazione ai piedi che causa seri problemi di deambulazione ma che fortunatamente può essere corretta. Era arrivata a piedi con il fagotto in spalla dall’altra parte del compound.
Il piccolo era già stato in cura presso il Beit Cure, un ospedale pediatrico di fondazione inglese specializzato in ortopedia e neurologia che opera a Lusaka e con cui la In & Out of the Ghetto ha stabilito una partnership che permette ai bambini del compound con disabilità fisiche e neurologiche di avere accesso gratuito a visite specialistiche, interventi e cure mediche. Il bimbo era già stato seguito dallo stesso medico che la madre ora attendeva, il quale, in seguito ad un ricovero con l’applicazione di gesso, aveva prescritto una cura di mantenimento attraverso un apparecchio tutore da applicare ai piedini. Quella che la madre attendeva era la prima visita dopo due settimane dalla rimozione del gesso e dalla dimissione dall’ospedale.
All’arrivo del medico la lezione d’italiano era finita, gli studenti avevano preso la loro strada verso casa e faceva già buio. In ufficio ad attenderlo oltre alla madre e al figlio, c’eravamo io, Diego e Bertha, uno dei soci fondatori dell’organizzazione che coordina il lavoro dei “Ghetto Angels” un gruppo di volontari che ogni settimana scandaglia il territorio alla ricerca delle persone più vulnerabili e presta loro cure, supporto ed assistenza a domicilio.
Il medico inizia la visita e si fa severo: il piccolo non indossava il tutore e probabilmente non lo aveva indossato nemmeno nei giorni precedenti. La madre aveva dimenticato o non aveva capito e le condizioni del bimbo erano regredite allo stato di partenza.
Mentre il medico procedeva con la visita e tuonava il proprio disappunto per le mancate cure, la madre ascoltava inerme, quasi inebetita le parole di quest’uomo severo tradotte nella sua lingua. Risultato: tutto da rifare. Si rendeva necessario un nuovo ricovero, l’ applicazione del gesso per la seconda volta e la ripresa del mantenimento attraverso il tutore.
Assisto alla scena in silenzio; dentro, una lotta per tenermi lontana dal giudizio. Guardo il piccolo tranquillo e sereno appoggiato al seno della madre, due occhi neri senza colpa, una vita davanti: penso al suo futuro a quanto sia importante garantirgli forza e salute e permettergli di crescere alla pari degli altri e lottare per esistere. Qui più che mai la vita non fa sconti.
Sposto lo sguardo sulla madre, fragile e smarrita, mi sembra di avvertire tutta la sua solitudine e colgo un velo d’imbarazzo nel suo sguardo, gli occhi abbassati a terra, un’agitazione soffocata: provo pena. Rifletto e ancora una volta faccio uno sforzo per mantenermi lontana dal giudizio.
Rifletto sul significato di essere madre e quanto debba essere difficile esserlo qui in questo angolo di mondo e provo solidarietà e rispetto per questa donna che cresce un figlio in silenzio, facendosi bastare le poche risorse a disposizione.
*elemento fondamentale per la vita quotidiana della donna zambiana è un panno di cotone colorato che serve da sacco per contenere i piccoli, da gonna, da grembiule e molto altro…