Ho messo molta cura nella ristrutturazione della casa. Sebbene non fosse la mia e non l’avrei mai vissuta, ne curavo ogni minimo particolare. Cercavo di dare all’abitabilità la dignità dovuta. Devo compiere uno sforzo grande per credere che tre bambini sono morti asfissiati in quella stessa casa che serviva per farmi campare. Era bella e nella mia fantasia abitavano ancora molti progetti per rendere migliore quel fazzoletto di compound. La bellezza salverà il mondo, ma non è stata sufficiente a salvare tre vite ancora verdi. Una sola è riuscita ad evadere la sentenza di morte pronunciata dalla non curanza dei genitori. Presi dal lavoro, spingendo fino al limite, hanno trovato l’infelicità. A volte la ricerca estrema della felicità porta dove lei non ha mai abitato. Bloccati a chiave in casa, con lucchetti alle griglie della porta. Il più grande dei quattro è di sette anni. Chiusi in casa per proteggerli da qualcosa che fuori poteva fagli male, ma questa volta il bene era rimasto chiuso fuori e il male dentro. Chiudersi non vuol dire salvarsi. Il padre e la madre erano fuori per lavoro fino a notte tarda. Il fuoco reso minimo dalla fiamma di una candela di luce che sa di casa, complice di amanti seduti ad un tavolo, compagnia di santi in chiesa. Fiamma come preghiera da non pronunciare, pronta a diventare un mostro che cancella tutto. Era lì, vicino al letto, per sostituire il calore di una presenza. Quella candela più che presenza, era simbolo di un’assenza. Sarebbe bastato il respiro della madre per spegnere quella fiammella, ma non c’era. Il fuoco mente, e si nutre di disattenzione. È così che cresce. Nel buio di una notte di periferia ai sogni sono state bruciate le ali, e quando tentarono di camminare via, un fumo nero gli rubava il fiato. Fuori spingeva l’affanno di braccia per aprire quello che era stato pensato per proteggere. Grida bagnate di saliva, accompagnavano lo sforzo che taglia le mani su ferro, mentre una folla con ringhi tra i denti s’attorcigliava attorno alla tragedia. Tra i quattro, una bambina è riuscita a volare più in alto e passare tra le dita fredde delle sbarre della finestra. Acqua sparsa, fuoco, sudore che gronda di gocce nere dalla fronte, occhi che bruciano di un rosso che si confonde col colore di un sangue mai stato sparso. La morte ha avuto rispetto e ha lasciato i bimbi appoggiati come se dormissero, con le gole chiuse da un fumo denso come schiuma. È la bellezza della fiamma di una candela che bruciava di confidenza distratta, ad aver portato l’inferno, dove il paradiso sembra già molto lontano. Ai genitori non resta molto, concentrati su ciò che non era essenziale, una fiamma su cera bianca si prese ciò che lo era. Resta una casa bruciata, una famiglia mutilata e una folla attorno a tre bare lunghe poco più di un banco di scuola. Mentre si scava per tre volte, i polmoni degli uomini presenti al funerale buttavano fuori note pesanti, come sassi tirati senza forza e pensavo, con l’odore di lacrime nascoste nel naso. Pensavo che in quella stessa ora di pomeriggio, quarantadue anni fa, davo i miei primi respiri ad una aria che sapeva di riso tagliato. Era il mio compleanno. Erano le tre e un quarto di un venticinque settembre come quello, solo l’odore era diverso. In quel momento ricordavo con memoria d’altri di nascere, mentre vedevo chiudere nella terra tre biografie appena cominciate. La penna era restata li, di fianco a un letto vuoto, dove una candela bruciava per l’assenza di un respiro. Per un motivo che non conosco, mi è dato di aver ancora inchiostro tra le mani e qualche foglio da imbrattare. Vale la pena che continui a scrivere di mio pugno ciò che altri non potrebbero fare; la mia vita.