Questa è la frase che uso per salutare la gente che conosco, e così saluto anche il gruppo che sta nascendo, in una piccola capanna di Kirombe, a qualche chilometro da Gulu town. Qui la gente usa solo “afojo ba”, ma a me, piace aggiungere; “lutuwa”, che significa: “my people”. In italiano non suona bene, ma in inglese già è meglio. “Hi my people”. La gente resta meravigliata quando lo dico. Primo, perché pochi bianchi s’interessano della lingua acholi. Secondo, per il mio accento. Sembra che io abbia un accento particolarmente acholi, simile all’originale. Terzo, perché dico a loro che sono la mia gente. Molti ridono di gusto e stringendomi la mano ripetono più volte: “lutuwa, lutuwa, lutuwa”. Vi voglio raccontare come le cose cambiano, e come non sia possibile pensare di arrivare in una terra straniera con progetti già fatti. Almeno, non è possibile per me. Non è possibile idealizzare dai banchi dell’università. Qui si incontrano, volti, storie, persone, e le persone non sono idee. Qui, il mio entusiasmo di carta deve fare i conti con una realtà di carne. Dopo un primo momento di smarrimento, dopo aver visto saltare tutte le mie idee e le mie certezze, ecco un fiore imprevisto. Prima di partire, dissi che la serendipità, sarebbe stata il tratto caratteristico, la stella polare, o meglio, la croce del sud, il punto cardinale al quale orientare la mia esperienza africana…ed ecco mantenuta l’unica promessa che mi era permesso di pensare! La mia storia si è incrociata per un attimo, per una combinazione di eventi, con la storia di Geoffrey, un ex bambino soldato, rapito dai ribelli della LRA (Lord Resintance Army) nel 1995. Quel giorno Geoffrey mi parlò per più tre ore della sua vita con i ribelli. Una storia di violenze, di crudeltà, di assurdità, a cui però non è consentito di far scrivere l’ultima parola alla sofferenza. Dopo quell’incontro, sono andato più volte a trovare Geoffrey. Abita a Kirombe, un villaggio poco distante dalla sede dell’ente a cui faccio riferimento. Tutto nasce in una capanna color argilla, senza luce, senz’acqua e lontana anni luce dal “già pensato”. Sotto un grande albero di mango, qualcosa di fragile sta prendendo vita. Da due persone, si è passati a sette in poco tempo. Il gruppo è formato da cinque ragazzi e una ragazza (moglie di Geoffrey), accomunati dalla stessa esperienza, cioè, quella di essere stati rapiti dai ribelli della LRA e costretti a diventare bambini soldato. Il settimo sono io, che tento goffamente di condividere con loro un briciolo di speranza. Sono più di cento le persone che vivono questa situazione e Geoffrey è in grado di contattarle tutte. Abbiamo questa fortuna. Geoffrey era un leader nel bush, e non mi è difficile immaginarlo. Ha delle doti da trascinatore, da guida, e poi è il più anziano di tutti, o “musè”, come dicono qua. Ha 26 anni, ma sembra ne abbia molti di più. Il problema è complesso. Questi ragazzi hanno fatto la guerra. Sono vite abituate alla guerra e a lottare per sopravvivere, a uccidere per non morire. Oggi queste vite lottano per esistere, per dimostrare alla propria gente, e a se stessi, che sono ancora capaci di amare nonostante tutto. La guerra per loro non è finita. Ogni notte combattono con i fantasmi di attacchi e aggressioni, di mutilazioni, di massacri che sono stati costretti a commettere. E quando il sole sorge, una nuova guerra è lì, pronta ad aspettarli fuori dalla porta di latta della loro capanna di fango e paglia. E’ la lotta contro la discriminazione, la segregazione, l’esclusione sociale. I loro racconti sono talmente crudi da farmi venire la nausea. Mi manca l’aria! Vorrei lavarmi per togliere da dosso tutte quelle brutture ma…non serve. Quella violenza mi si attacca dentro, come la polvere rossa di queste strade si appiccica alla pelle, ai vestiti, tra i denti. Vi parlavo di odore…beh, questa violenza è talmente densa da poterne sentire l’odore. E’ da questa polvere che partiamo. Insieme abbiamo deciso di accettare una sfida che parte dal basso di questa terra rossa. Umanamente parlando, qui, non c’è nulla di più basso. Non potevo immaginare nulla di così essenziale; ci sono solo brandelli di speranza, e da qui si parte. Un unico punto di partenza che ha dei nomi che vi voglio dire: Richard, Charles, Dennis, Daniel, Geoffrey, Nighty e Diego…ecco tutto quello che abbiamo. Sì, è vero, può sembrare poco se si guarda con frettolosa superficialità, ma se solo si rallentano i ritmi, ci si accorge del bello che c’è e che può emergere. Quando si è abituati a vedere vite sfigurate si ha bisogno di ricercare la bellezza. Sono occhi che devono essere riabilitati al bello. Penso ci siano 2 motivi che ci impediscono di cogliere la bellezza; uno è la distrazione, e questo è un aspetto che riguarda me in prima persona. L’altro è la proibizione, che riguarda queste sei vite. Proibizione perché qualcuno ha vietato a loro di poter immergersi nel bello che spetta di diritto ad ogni esistenza. A Kirombe ho incontrato poi un gruppo appena nato (1° giugno 2008) voluto dal DCO, un organo governativo a livello locale, che si è reso conto dell’enormità di problemi che i “returnees” (i ritornati dal bush) devono affrontare. Ho partecipato ad un meeting formalissimo, in cui sono stato introdotto a livello ufficiale. Il cheirman del DCO mi ha invitato a collaborare con loro, a lavorare insieme, “mano nella mano” come ha detto lui. Ha detto che erano felici della mia presenza perché ero il primo bianco, tra tutte le promesse delle Ngo’s, che si era degnato di presenziare ad un incontro. Lusinghe di circostanza, ma con un fondo di verità, ovvero, le promesse non mantenute di alcune organizzazioni. La sede del meeting è la solita: sotto un grande albero di mango, con un diversivo; un cielo che minacciava la fine mondo. Il gruppo si chiama: LAYIBI DIVISION WAR AFFECTED YOUTH GROUP, formato, sulla carta da quaranta persone, ma nella realtà sono ventotto. Capite adesso perché i meeting durano tre ore…ci vuole un quarto d’ora solo per dire il nome del gruppo. Hanno attività che faticano a prender ritmo, come i lavori con l’alluminio, la carpenteria, il lavoro di tessitura ecc. Al di la di tutto, penso sia una bella opportunità, per me, per noi, una sfida da cogliere. Finito l’incontro, lanciai una proposta a tutti quegli occhi che mi guardavano severi e attenti. Presi la parola e si fece un silenzio imbarazzante, quasi dovessi proclamare il discorso di fine anno a reti unificate. Mi guardai attorno con un mezzo sorriso e dissi: “ Quando facciamo un partitone a calcio?” In due secondi il clima si trasformò radicalmente. Ci fu un vero e proprio boato, stile gol di Grosso nella semifinale dei mondiali del 2006 contro la Germania. Gente che saltava, che rideva, che lanciava urla di gioia. Ecco come gli ex ribelli della LRA si erano trasformati in bambini festosi. Per un secondo si è respirata tutta la bellezza dell’infanzia, quella che non hanno potuto vivere. Anche qui, niente basi pre-programmate, niente grandi discorsi. Partiamo da un sorriso. Afojo ba lutuwa