Questa è solo una parte delle sette storie che ho ascoltato durante la mia permanenza in Uganda la scorsa estate. Sono sette vite accomunate da un’unica storia…la guerra. Vicky è una ex bambina soldato, rapita dai ribelli quando aveva solo 9 anni. Ha accetto di condividere la sua storia, quello che è stata costretta a vivere durante la guerra. Ha parlato con fatica. Teneva lo sguardo fisso nel nulla mentre ricordava quei momenti, senza lasciar trasparire emozioni. E’ con rispetto che ho ascoltato le sue parole e con lo stesso rispetto le regalo a voi. Non è di facile lettura per due motivi: per il contenuto e perché ho voluto essere fedele alle sue parole, senza sofisticazioni e eccessivi aggiustamenti. Vicky e Diego
Mi chiamo Vicky. Mi hanno presa nel 1996, quando avevo solo nove anni e sono tornata nel 2000. Mi hanno rapita di notte, verso l’una. Abbiamo camminato tanto, fino al mattino. C’era un anziano che hanno preso insieme a noi, poi l’hanno ammazzato perché hanno visto che era debole e non camminava. Alle 11 della mattina dopo hanno rilasciato alcune persone. I ribelli ci hanno chiesto se volevamo restare con loro o se volevamo tornare indietro e noi, vedendo che avevano ucciso l’anziano abbiamo avuto paura, e così abbiamo risposto che volevamo restare. Abbiamo camminato con altra gente fino al punto in cui ci siamo uniti ad altre persone. Eravamo in tanti ed era circa l’una del pomeriggio. Io e mia sorella non parlavamo Acholi, che era la loro lingua, bensì Madi. Mi hanno picchiata perché parlavo Madi, sino che mia sorella ha cominciato a parlare Acholi. Dopo avermi picchiato mi hanno lasciata. Hanno detto che dovevamo lavarci e così abbiamo fatto. Io in quel momento ero morta perché mi hanno picchiata tantissimo, e non potevo più muovermi e non avevo nemmeno la forza di fare il bagno. Hanno iniziato a picchiarci all’una sino alle tre. In quel momento ero morta e alle sei sono risuscitata, (mi sono ripresa). Un capo dei ribelli ha chiesto dove fossi, mi cercavano. È venuto da me e mi ha chiesto dove fossi stata, io non ho risposto, dopo di che mi hanno dato il cibo da mangiare ma non ero capace. Quella sera i ribelli hanno preparato dell’acqua calda per fare la doccia. Mi hanno fatto anche una puntura dopo la doccia. Il giorno dopo ci hanno dato anche delle medicine. Ci sentivamo meglio. Quel posto era in Uganda e stavamo bene lì. Non c’erano problemi. Siamo stati in Uganda per due anni mentre Kony (capo dei ribelli) era in Sudan, e diceva: tutti questi ragazzi che avete rapito li dovete portare qui da me in Sudan. Questi ragazzi erano destinati a fare i bambini soldato. Noi siamo state portate la nel 1998 per essere addestrate nel bush (boscaglia dove i ribelli vivono e combattono), per imparare ad usare le armi. Non c’era un posto dove poter stare, ero continuamente sballottata. Poi sono andata a vivere con un uomo, era un dottore. Avevo 11 anni. Non sapevo cosa avesse in mente quell’uomo, quindi ero tranquilla. Ad un certo punto, ha organizzato con le sue mogli dei lavori e io sono rimasta da sola con lui. Eravamo io, lui e una moglie. Lui ha detto a questa moglie di preparare il letto per me, poi ha detto ancora alla moglie di dirmi che dovevo andare preparare il letto per i bambini. Al ritorno, quell’uomo era già sul mio letto che mi aspettava. La moglie aveva il compito di chiudere la porta della stanza. Io non sapevo che lui fosse nella mia stanza, pensavo ci fosse ancora la moglie che preparava il letto. Ad un certo punto la moglie ha spento la luce e ha chiuso la porta. Io pensavo: come posso uscire! Perché hanno fatto questo? Parlavo da sola. Mi sono smarrita in quel buio, perché cercavo una via di uscita ma non sapevo dov’era la porta. Lui era appoggiato al pilastro e mi aspettava, mentre io camminavo a tentoni nel buio. Mentre camminavo lui mi ha afferrata e mi ha buttata sul letto. Ha iniziato a fare i suoi comodi sino che ne ha avuto abbastanza. Io non potevo nemmeno camminare dopo questi abusi, ma lui al mattino era già fuori e mi ha lasciata sul letto. Lui ha fatto la doccia e poi è uscito. Una donna mi ha chiesto se volevo fare la doccia, ma non potevo parlare. Io non volevo fare quelle cose con lui, così lui ha tentato di strozzarmi. Per non farmi gridare mi ha infilato un fazzoletto sino in gola. Io ho rifiutato di fare la doccia, sono caduta e ho iniziato a camminare gattoni fuori dalla capanna. Sono stata così per tre giorni, senza lavarmi. Puzzavo come non so cosa. Sono entrata nella camera dove dormivamo e poi un’anziana è venuta e ho iniziato a piangere. Mi ha chiesto che cosa fosse successo. Piangevo senza parlare mentre lei preparava dell’acqua calda per massaggiarmi e lavarmi. L’ha fatto per tre giorni. Dopo questo tempo mi sentivo un po’ meglio, ma non camminavo ancora bene. Anche oggi, a volte le gambe mi fanno molto male. Nel frattempo Kony ha detto che dovevano essere allontanate le ragazze da quell’uomo che ha abusato di me, perché sospettavano che fosse uno stregone. Sono stata portata a casa di un altro uomo e sono stata da lui per circa due anni perché dicevano che l’uomo che mi ha violentato aveva la sifilide e che quindi ero malata. Poi ho conosciuto il mio attuale marito, Daniel. Non eravamo insieme da tanto quando siamo ritornati in sud Sudan. Siamo restati lì poco tempo e subito ci hanno comunicato che dovevamo ritornare in Uganda. Abbiamo camminato tanto, e in quel tempo sono rimasta incinta di Joyce. Durante la gravidanza di Joyce ero in pessime condizioni. A volte andavo a dormire senza mangiare perché stavo male. La pancia cresceva lo stesso, così è nata Joyce. Quando è nata ho sofferto tantissimo. Mi sono subito resa conto che la nostra vita era in pericolo. Nessuno laggiù mi aiutava, e poi Kony ha detto che dovevamo ancora ritornare in Sudan ma ho pensato tra me: “se io non morirò in questo viaggio, morirà sicuramente la mia bambina”. Devo tornare a casa, devo scappare. In quel momento Daniel non aveva capito le mie intenzioni. Io nel 2004 sono tornata a casa. Joyce era piccolissima, meno di tre anni. Tre giorni dopo la nascita della mia bambina ho iniziato camminare. Quando sono arrivata a casa non volevo mangiare e fare niente perché pensavo che le cose che mi davano da mangiare erano avvelenate. Non ero stata curata. Avevo ancora il sangue del parto, perdevo ancora sangue. Mi hanno aiutata, mi hanno messo acqua calda per massaggiare la pancia (usanza acholi) hanno lavato la bambina e poi me. Dopo, una volta lavata hanno cucinato tanti tipi di cibo, Ma mi rifiutavo di mangiare e li ho accusati di volermi avvelenare. Hanno chiesto ad un anziano che sapeva la mia lingua, di parlarmi. Avevo in testa tutte le idee che mi avevano inculcato i ribelli. Mi hanno portato da lui, in un posto che si e poi l’anziano mi ha detto: “tu pensi si sia del veleno nel cibo? benissimo, allora lo mangeremo insieme”. Tutte le cose che mangiava lui le mangiavo anch’io. Sono stata lì forse cinque giorni. Mi hanno fatto delle punture è mi sentivo meglio. Sono stata lì tre giorni, ma hanno detto che non potevo stare da sola e quindi mi hanno portata a in una città del nord, dove c’erano altri ragazzi. Sono stata lì ma non avevo nessuno, non conoscevo nessuno. Non c’era nessuno originario delle mie parti che poteva venire a trovarmi. Pensavo: “non ho più genitori! Non ho più nessuno!” Vedevo i parenti di alcuni che venivano a trovarli e portavano cose da mangiare ecc, allora pensavo: “mi lasciate qui perché non ho nessuno”. Sono stata in li per sette mesi. Una volta iniziato l’ottavo mese ho chiesto di poter tornare a casa mia. Dicevo: “se sapete che non ho nessun posto dove andare, dovete portarmi a Gulu, nel centro per ex bambini soldati che si chiama Gusco. Li è abbastanza vicino a casa mia, così se i miei genitori fossero stati ancora vivi avrebbero potuto trovarmi, oppure avrei potuto parlare alla radio ( quelli che tornano possono parlare alla radio per comunicare che sono ancora vivi, per farsi raggiungere dai parenti ). Loro mi hanno detto che non avevo più nessuno. Un giorno un soldato che veniva dal mio paese, ha detto che mi conosceva. Mi avrebbe preso e portato a casa mia dai miei genitori, ma avrebbero dovuto pagarlo, per i soldi che erano serviti per il trasporto sino al paese. Quando ho sentito che avrei dovuto pagare, sono andata allo staff di Gusco perché ho pensato che mi voleva riportare ancora nel bush. Anche lo staff pensava quello che pensavo io e così fu arrestato. Ero convinta di non aver più nessuno della mia famiglia ma volevo andare ugualmente il mio paese. Cercavo un aiuto. Nel gennaio del 2005, sono tornata, in un primo momento, i miei parenti sono scappati. Mio fratello era a casa ma mio papà e mia mamma erano morti. Appena mio fratello mi vide scappò. La zia, sorella di mia mamma, ha visto la situazione. Le donne erano in piedi con l’intento di scappare quando è arrivata la macchina che mi portava. Ho visto mia sorella che diceva: “questa somiglia a qualcuno, somiglia a Vicky, poi mia zia mi ha riconosciuto. Mio fratello, dopo essere scappato è tornato. Ho chiesto: “perché scappavi? adesso sono cambiata, tu credi che io sia ancora una ribelle della LRA? perché devi scappare? sono inutile per la vostra famiglia?” lui ha detto: no! Sono scappato perché ho pensato che fossero venuti a rapirmi, non sapevo che fossi tu”. Nessuno dei miei parenti si è degnato di venirmi a vedere. Ci sono rimasta malissimo perché voleva dire che nessuno mi voleva bene. Mi dissi: “dovevo rimanere lì, nel bush, così se fossi morta, sarei morta tranquilla. Adesso sono qui e loro non mi vogliono”. Altri miei fratelli sono venuti a trovarmi mentre dormivo. Alla mattina, tutti passavano senza salutarmi. Non mi salutava nessuno. Mio cugino è venuto a trovarmi. Persone che venivano da lontano e le ragazze con cui sono cresciuta, sono venute a vedermi ma i miei parenti no! Sono stata lì per una settimana. Volevo tornare a Gulu, dalle suore che mi hanno insegnato a cucire. Ho visto che anche Daniel era tornato, e poi eravamo insieme anche nel bush. Dovevamo stare insieme perché non potevo portare mia figlia continuamente in giro, perché noi donne che siamo tornati dal bush con figli, non possiamo trovare un altro uomo, non ci vogliono. Potevano insultare mia figlia, per tutte le cose che avevamo fatto noi nel bush. Queste cose possono ricadere sulla vita di mia figlia. Daniel non può maltrattare la bambina, e sua figlia. Così abbiamo iniziato a vivere insieme, sino ad ora. Questa è la mia storia.