40. Allora viene da lui un lebbroso, supplicandolo e inginocchiandosi e dicendogli: “Se vuoi, puoi mondarmi!”. 41. Ed (egli) mosso a compassione, stesa la mano, lo toccò e gli dice: “(Lo) voglio, sii mondato”. 42. E subito andò via da lui la lebbra, e fu mondato. 43. Ed (egli) ammonendolo severamente, subito lo scacciò, e gli dice: 44. “Bada, non dire niente a nessuno, ma va’, mostrati al sacerdote, e presenta per la tua purificazione ciò che ha prescritto Mosè (Lv 13,49) a testimonianza per loro”. 45. Ma quegli, uscito, cominciò a proclamare tutto e a divulgare la parola, così che egli non poteva più entrare manifestatamente in città, ma era fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte. (Mc 1, 40-45)
Penso a quante volte, nelle esperienze di vita si è mossi dalla paura, oppure le volte in cui la paura ha il potere di bloccare. Ci sono tipi di personalità che, di primo acchito, davanti ad una situazione, ad una scelta da fare, reagiscono con un’emozione che ha il sapore della paura. Non è negativo, basta saperlo, essere consapevoli delle proprie emozioni, dare loro un nome e prestare attenzione alla reazione. Davanti ad un lebbroso, alla stazione di Gulu, in Uganda, io ho provato paura, e anche un certo senso di ripugnanza, di respingimento. Questa è stata la mia primissima reazione, ammessa e accettata per dar spazio alla verità. Quell’uomo mi stava chiedendo qualcosa da mangiare, dei soldi, insomma stava elemosinando: “supplicava in ginocchio”, perché alla fine questo significa elemosinare. Quando mi si è fatto vicino, mi sono spostato proprio fisicamente da lui, per tenerlo a “giusta” distanza. Non era bello da vedere, infatti, la lebbra gli aveva colpito il viso, deturpandolo, e aveva delle garze sporche sui moncherini di un piede e di una mano. Alla stazione c’è un sacco di gente che chiede qualsiasi cosa, da soldi, a una sigaretta, a qualcosa da mangiare, così mi sono allontanato facendo un cenno negativo con la testa, senza emettere nessun suono, aprendo timidamente le braccia verso l’alto, facendo un po’ spallucce per dire: “mi dispiace, non ho niente”, il che non era vero. Questa è stata la mia primissima reazione. Dopo qualche metro ho realizzato e sono tornato sui miei passi cercando di ritrovare quell’uomo. La stazione era affollatissima. La mia reazione non mi ha fatto sentire apposto. La reazione del Ragazzo di Nazareth è stata diversa davanti al lebbroso. La scena è la stessa: viene un lebbroso, “supplicando inginocchiandosi”, e se proprio vogliamo, la richiesta fatta, è la stessa: “Se vuoi puoi mondarmi”, dice il lebbroso, cosa che umanamente non potevo fare, perché ne ho poteri paranormali ne sono un medico, ma in un certo senso, sono stato interpellato come vincolo di guarigione. “Se vuoi puoi mondarmi”, una parola che mi spinge ad usare creatività; MON-DARMI. Ha in sé come radice la parola mondo, più il verbo dare. “Se vuoi puoi mondarmi”, è come se la richiesta fosse: se vuoi puoi ridarmi al mondo, puoi rimettermi nel mondo, nella società dalla quale sono stato escluso. Lo puoi fare con un gesto semplice: riconoscimi, trattami da uomo e così sarò mondato, ovvero, ridato al mondo”. Mi rendo conto che potrebbe essere un’interpretazione forzata, fantasiosa, un’acrobazia mentale, ma forse c’è qualcosa di vero in tutto questo. L’essere umano chiede di essere considerato, riconosciuto come tale e rispettato, nonostante, la malattia o le azioni commesse. La richiesta, è quella di essere rimesso nuovamente nel mondo degli esseri umani, di esserne incluso, perché da troppo tempo era stato messo alle porte e considerato “non uomo”. Quello di guarire fisicamente è un dono dato a chi si occupa della presa in cura della persona, come infermieri, dottori, operatori sociali o guaritori con poteri particolari, ma quello di mondare è un dono che hanno tutti. Tutti noi, con un gesto di giustizia, di solidarietà, di riconoscimento, di umanità siamo in grado di rimettere al mondo, “mondare”, chi è stato escluso perché visto come non degno. Il ragazzo di Nazareth, in questo brano di Luca, non usa il verbo guarire, bensì “mondare”, e questo ci interpella tutti, nessuno escluso. Rimettiamoci al mondo!