Cairo Road


Non si scoprono terre nuove

senza accettare di perdere di vista,

prima, e per molto tempo,

ogni terra conosciuta.



(A. Gide)

 

 

Era un pomeriggio di metà settimana e il cielo stava rovesciando il mare atterra. Mi trovavo sull’autobus imbottigliato nel traffico, sulla strada che da Bauleni porta al centro della città. Tutto paralizzato, niente da invidiare al traffico di Milano. Avevo un appuntamento per le due, ma alle tre mi trovavo ancora pressato contro il finestrino zuppo di condensa di un autobus che non si muoveva. Una volta arrivato nel centro di Lusaka, mi libero dalla mia prigione di latta e comincio a camminare velocemente verso i portici di Cairo Road, per ripararmi dalla pioggia. Con uno scatto veloce porto il telefono all’orecchio per giustificare il ritardo, e con un’altra mossa ingenua lo metto nella tasca destra della felpa bianca e inzuppata d’acqua color smog. La pioggia continuava a cadere forte, mentre aspettavo una tregua dal cielo, sotto quelle lunghe verande di negozi affollate di gente paziente e abituata a fare i conti con nuvole nere.

Cammino tra spinte di corpi che si toccano senza volerlo, e mi faccio strada tra una calca di colori e di voci così intensi da lasciar storditi.

Tra il caos mi trovo davanti ad una scena, l’unica ad aver contorni nitidi. Due uomini stavano discutendo animatamente per essere entrati in collisione in quel mare di meteore umane. Forse un contatto più energico del solito, o forse un “oh, mi scusi” non detto seguito da una frase con troppi punti esclamativi, ma sta di fatto che, quel giorno, camminare in Cairo Road e non voler essere urati sarebbe stato come entrare in una stalla e pretendere di uscire con le scarpe pulite. Mi fermo e guardo la scena incuriosito perché mi sembrava tutto così starno; e infatti lo era. Solo dopo, con il senno di poi, ho capito che quella pantomima teatrale, era una scenetta studiata per attirare l’attenzione di passanti poco esperti e ingenui; e com’è brutto realizzare di essere quel passante! La gente si fermava anche per un secondo per assistere a ciò che le stava accadendo davanti, creando un ingorgo da attraversare strisciandocisi dentro. Mi fermai un attimo, il tempo di guardare e poi ripresi subito il flusso della corrente umana che andava verso la fine della veranda. Tra i tanti, sento urto in particolare, seguito da una frase che suonava gentile, ma in realtà era una presa in giro: “ops, mi scusi, sa è meglio sempre chiedere scusa quando si urta una persona, altrimenti vede cosa succede…non è vero?”, puntando il dito verso la disputa dei due attori. Urto insolito, che mi ha svegliato dal mio sonno da ingenuo. Subito, porto la mano alla tasca destra, proprio dove sono stato colpito, proprio dove riposava il mio telefonino. Un uomo distinto sui trent’anni, con giacca chiara e spalle curve. Una faccia ruvida come la cartapesta e scura come le nuvole di quel giorno di pioggia. Una sagoma alta e magra con mani fini da non farsi sentire, che si mischiava nella folla e spariva sotto i miei occhi vuoti come la mia tasca destra; il mio telefonino se ne andava con lui in quell’impasto di colori umani che si muovevano come api su un alveare. Il suo passo di volpe mi aveva lasciato sul posto, fermo come chi non sa quale pedina muovere sulla scacchiera. Fermo come chi sa di aver perso. In una manciata di secondi, la presunzione di essere uno “street man”, di sapermi muovere nella jungla urbana tra la gente di strada, aveva perso forma e angoli, come una pista di biglie sulla spiaggia dopo una carezza leggera di un’onda. Rimaneva la struttura, ma aveva perso i contorni e gli spigoli.

È così che ho perso il telefono e con lui una malsana e eccessiva sicurezza, con una mano leggera come il movimento di un mare calmo sulla sabbia.

L’uomo che conosce i suoi limiti cresce, ma al momento vede la felicità lontana.

Uno sciame di soluzioni mi paralizzavano il pensiero, e così camminavo senza meta in attesa di riordinare la mente. L’appuntamento era irrimediabilmente perso, senza telefono non avrei mai potuto trovare la persona che mi attendeva. Avevo fame, freddo e voglia di sedermi in silenzio. Entrai in un fast-food, con lo sguardo fisso sul tabellone pieno di hamburger, patatine e cosce di pollo fritte, ma niente mi attirava in quel momento, così per temporeggiare andai in bagno.

Uscii subito da quel posto che odorava di fritto. L’odore dei fast-food è uguale ovunque, e in lampo di nostalgia durata meno di un secondo la mente sorrideva ai profumi mediterranei di un ristorante in Liguria. Una vera celebrazione di aromi che s’infrangeva con una realtà lontana migliaia di chilometri e mi ributtava alla mia tasca destra vuota. Non era il telefonino a mancarmi, era l’orgoglio che bruciava come una strisciata d’ortica su pelle tenera, così me ne stavo sull’angolo di Cairo Road, dove due verande si incontrano come vecchie amiche, a guardare le gocce cadere da una lamiera verde militare.

Un tocco di mano più rude si appoggia proprio sull’osso del mio gomito e senza alzare la testa per guardare il volto di chi chiede attenzione, porto gli occhi direttamente al punto in cui sono stato toccato. Non potevo crederci, sul palmo della mano tozza e sporca era appoggiato come un soprammobile su legno scuro il mio telefonino bianco e rosso. Alzo immediatamente gli occhi e li pianto come un chiodo nel muro in quelli dell’uomo che me lo porgeva. Con un gesto di nervi tesi presi il telefonino da quella mano che non si darebbe comunque chiusa per trattenerlo, mentre tenevo gli occhi su quella faccia tonda con baffi color sale e pepe. L’uomo sulla sessantina era basso e tarchiato ed aveva un cappello blu che copriva una fronte probabilmente stempiata. Sentivo un sensazione mista, come un crocevia tra stupore e rabbia. Chiesi dove avesse trovato quel telefono e lui con voce roca consumata dall’alcol, si inventò la sua storia. Mi disse che aveva visto la scena, e che aveva provato compassione per questo muzungu (uomo bianco) e così è andato dal borseggiatore e si è fatto dare il telefono. Oltre ad essere poco credibile, l’uomo era completamente ubriaco e mi chiedeva in cambio un bicchiere, così, giusto per ricambiare la gentilezza. Lo afferrai per il braccio e strinsi forte tirandolo verso dalla mia parte. Dissi con voce forte di venire come, e l’uomo senza nome si scusò in un inglese comprensibile e scappò via tra le ultime gocce di pioggia. Io non potevo crederci: avevo tra le mani il telefono che dieci minuti prima mi era stato rubato. Non mi era mai successa una cosa del genere, e confuso me ne andavo verso il primo bus. Camminavo veloce e penso di aver avuto l’aria di chi ha assistito ad un miracolo, poi una voce ha fatto eco sotto la veranda ormai vuota: “hai trovato quello che cercavi?” Mi voltai di scatto verso quelle lettere pronunciate con sicurezza e vidi un ragazzo alto che vendeva cinture e magliette taroccate vicino ad una vetrina. Aveva tra le mani una polo rosa con rughe nere e una cintura penzolava in tutta la sua lunghezza dalla mano sinistra. Il senso di confusione accresceva nella mia testa e così, come un cowboy che non ha più proiettili da sparare dissi: “che cosa?”. Tra i denti bianchi di quel ragazzo filtrarono della parole che danzavano divertite, probabilmente per la mia espressione non proprio intelligente: “sì, il tuo cellulare!”. Mi sono sentito come Jim Carrey nel film Truman show: tutti sapevano tutto tranne me! Come diavolo facesse a sapere del mio telefonino quell’ambulante che non avevo mai vito prima. “E tu come fai a saperlo?!” risposi completamente disarmato. Affianco a lui altri ragazzi sulla ventina d’anni se la ridevano portando la mano alla bocca, per non mancarmi di rispetto, ma la scena dev’essere stata proprio comica e non riuscivano a bloccare tra le dita la forza della loro risata. Il ragazzo bruno e slanciato mi spiazzò definitivamente con una “non risposta”: “ricordati che questa è Cairo Road, è Lusaka; stai attento la prossima volta!”.

Avevo imparato un lezione importante, data da un ragazzino ambulante che vendeva magliette cinesi davanti ad una vetrina di un qualsiasi negozio del centro di Lusaka. Subivo colpo dopo colpo, ma l’entusiasmo di aver ancora il mio telefono in tasca non mi permetteva di cadere definitivamente, così, preso dalle sete di capire, di dare un senso a questa storia che diventava sempre più assurda, chiesi ridendo, forse di me stesso: “senti, spiegami una cosa; che senso ha rubarmi il telefono e dopo dieci minuti farmelo riavere?”

Il ragazzo si fece serio per un attimo, come per ricomporsi, come se stesse per dire qualcosa di ufficiale e importante. Si fregò il naso con la mano occupata dalla cintura, facendola oscillare come un serpente morto e disse: “guarda che qui, su questa strada, qualcuno ti conosce”.

Il colpo finale era stato sferrato. Non avevo capito niente di quella città, di quello che stava succedendo a mia insaputa, delle dinamiche che abitano le strade di Lusaka. La strada si fa conoscere pian piano, e chiede a volte un conto salato e altre volte invece qualcun altro lo chiude al posto tuo. In Cairo Road, un qualcuno senza nome e senza volto ha saldato il mio conto, permettendomi di imparare una lezione gratuitamente.

Tornato a casa guardavo il mio telefonino bianco e rosso come un mistero, un profondo senso di gratitudine che aumentava dentro e non mi faceva dormire.

Le parole non bastano per descrivere la danza di sentimenti che si intrecciano e come una glicine s’arrampicano sino alla gola. Mi sento pieno di fiori colorati e il profumo mi fa sognare più forte. Sogno alto con l’entusiasmo di un folle.

Ancora oggi, a distanza di tempo, non so chi sia stato a garantire per me.

Quando frequenti la strada, quando non hai paura della gente che la vive, quando la incontri e le stringi la mano con un sorriso, quando scambi parole gentili e dimostri che, a modo tuo, le vuoi bene, quando credi che non stai facendo nulla di speciale per loro, niente di importante, nessun progetto con grandi finanziamenti; ecco che la stai incontrando davvero. La gente va incontrata, sempre. Ho capito che il dono più grande che ho ricevuto è quello di voler incontrare, di stringere mani e regalare sorrisi. Questo è il passe-partout che permette di entrare nella vita della gente, nella loro storia anche in zone che molti considerano “a rischio”. Vale la pena! Vale assolutamente la pena essere preseti, tessere relazioni, sentirsi presi in causa nella vita delle persone, sentirsi fratello e sorella di tutti. Vale la pena di vivere la strada, in ogni paese di questo pianeta, in una Cairo Road di qualsiasi città del mondo.

Dal Ghetto ai Ghetti

“La Drug Enforcement Commission (DEC) di Lusaka ha arrestato un ragazzo di 22 anni per il traffico di 34 bustine di cocaina e della cannabis nascosti nella giacca. L’ufficiale Samuel Silomba  addetto alle pubbliche relazioni, ha confermato in una dichiarazione messa a disposizione alla Mwebantu New Media, che P—— N——- abitante nella casa n —-* di Bauleni Compound Lusaka, è stato arrestato per traffico di cocaina e cannabis. Nel frattempo, la Commissione negli ultimi sette giorni ha arrestato 28 persone per traffico nazionale di svariati quantitativi di cannabis. Tra gli arrestati c’è B—– B—–, un contadino di 86 anni della fattoria T—— in Lundazi, arrestato per traffico di 124,7 chilogrammi di cannabis. Silomba ha rivelato che il 124,7 chilogrammi di cannabis erano nascosti  in 90 sacchetti di politene. “Inoltre, sono stati arrestai anche M— K———, 24 anni, di Kaoma Ndonga nel distretto di Kaoma per il traffico di 27,2 chilogrammi cannabis, S—- L——–, 30 anni, e S———- L———–, 33 anni, del distretto di Kalabo, per il traffico di 12,2 chilogrammi di cannabis….”

 * i nomi reali sono stati tolti per rispetto    

Articolo tratto da: Mwebantu New Media
www.mwebantu.com

 

Questa è la situazione oggi in Zambia, e non esclude nessun compound.

La notizia dell’arresto di uno dei nostri ragazzi di Bauleni, circolava già all’inizio della settimana, quando una squadra del dipartimento anti droga (DEC) aveva fatto irruzione in borghese nel compound. Erano arrivati con auto private e sono riusciti a catturarne tre, nell’angolo poco nascosto di Bauleni in cui si spaccia e si consuma.

Le droghe leggere come la marijuana, la cannabis, o daga, come viene chiama qui, sono principalmente prodotte “in casa”, si tratta quindi di un traffico per la maggior parte dei casi, a livello nazionale. Le droghe pesanti, come eroina e cocaina, arrivano da fuori, dal sud America soprattutto. Il narcotraffico internazionale non si è dimenticato dello Zambia.

Destinazione d’arrivo, Lusaka, per poi concentrarsi nel Ghetto numero uno della capitale, ovvero; Chibolya, che in Chibemba (una delle 78 lingue locali) vuol dire “posto abbandonato”, ma la gente lo chiama anche Bagdad. Quella è la vera “no man’s land”, la terra di nessuno dello Zambia. La droga è importata attraverso il metodo ormai noto degli ovuli ingoiati da uomini e donne che fungono da contenitori umani. Quest’umanità gravida di morte, entra nel Paese, consegnando ad altri corrieri la droga o portandola direttamente nel ghetto.

Molti sono i racconti di ragazzi morti per l’esplosione di un ovulo nello stomaco, ma restano storie senza nome, quasi leggende metropolitane, anche se non lo sono.

Una volta raggiunto il ghetto, è portata in laboratori spartani locali per essere lavorata, tagliata, dosata e distribuita. L’eroina (e cocaina) arriva in forma di sassi, compattata e pressata per questione pratiche di riduzione del volume, e poi viene tagliata sino a quando diventa polvere sottile. C’è un primo taglio, con sostanze e prodotti chimici anche nocivi, e poi un secondo taglio, dopodiché, dei tester ne provano l’effetto. Se queste cavie umane non muoiono e ne garantiscono l’effetto, la “roba” viene messa in piccoli pacchetti per la distribuzione e tutto è pronto per l’uso e per la vendita. Chi ha in mano il traffico di questi primi due tagli sono degli spacciatori chiamati Seven Spirits. Sono i più conosciuti, e temuti.

A volte fanno delle promozioni, una strategia di marketing capace di legare il consumatore al proprio spacciatore di fiducia. Legame questo, consolidato certamente dalla dipendenza, ma anche dalla pericolosità dei Seven Spirits. “Con loro non si scherza”, dicono i ragazzi che conoscono il ghetto, “se sgarri sei morto”. Questi spacciatori hanno costruito un rudimentale ostello per junkies, così vengono chiamati i consumatori. Una struttura improvvisata e precaria, fatta di pali di legno e sacchi di plastica per ospitare le centinaia di ragazzi che, per ottimizzare i costi, dormono in queste tane, risparmiando così i soldi per i mezzi pubblici da investire nella droga. Infatti, la maggior parte di loro viene da diverse zone della città. Meno spese, più possibilità di “investirli” nella propria distruzione, ovvero in eroina. I ragazzi che si drogano in Lusaka sono migliaia. Chibolya ha la triste esclusiva del consumo di eroina attraverso iniezione, come nei paesi occidentali.

Negli altri compound di Lusaka l’eroina viene sniffata e fumata in vari modi, ma difficilmente iniettata. I Seven Spirits sono moltissimi e riescono a distribuire la droga in tutta la città, grazie ad un alto numero di micro spacciatori chiamati “Pear”, anch’essi consumatori, che la portano nei diversi compound della città. Ad ogni passaggio di mano la “roba” viene ulteriormente e pericolosamente tagliata, così, quando raggiunge i compound di destinazione, la droga ha il colore della cenere. Ecco spiegato, in qualche passaggio, come le droghe per ricchi, cocaina in primis, ma anche eroina, diventano popolari e alla portata dei più poveri dei poveri. Chibolya resta il punto centrale della distribuzione di Lusaka; tutto parte dal ghetto per antonomasia. La pericolosità dei Seven Spirits è nota anche alla Drug Enforcement Commission  (DEC) che, a dire della gente, preferisce non entrare in Chibolya per motivi di sicurezza. Il DEC ha cercato di contrastare questo traffico, ma invano. Per questo motivo, Chibolya, è una terra senza leggi, senza forze dell’ordine. Una sorta di ricettacolo di delinquenza, di refugium peccatorum, in cui, chiunque abbia problemi con la legge, può trovare rifugio sicuro. Al suo interno si possono trovare, clandestini, ladri, assassini e rei di ogni sorta di crimine. Li, alle sue porte la polizia si ferma, la legge pure. Chibolya è la zona franca in cui la droga viene venduta alla luce del sole, senza preoccupazione, come in un comune mercato si venderebbero frutta e verdura. Nel ghetto gira di tutto; Marijuana, Hashish, Cannabis, Eroina (che chiamano Yelloine), Cocaina (chiamata Coco), sovraddosaggio di medicine come il Cardene, altre come l’Artane e altre ancora usate in psichiatria in grado di dare alterazioni e altri effetti cercati dai consumatori di droghe. Spacciare è un business come un altro, si vende droga come atto normale e comune. Questo denota una situazione non facilmente arginabile e assolutamente fuori controllo, in cui il governo non sa dare risposte efficaci. Un fallimento questo, comune a tutti i Paesi del mondo. Infatti, il narcotraffico continua a crescere come fiorente business, quasi incontrastato. I consumatori, gli Junkies, delinquono regolarmente, macchiandosi di ogni genere di crimini; dal borseggio comune, specialmente in Cairo Road e per le vie centrali della città, sino, in rari casi, a omicidi. Questa non curanza della vita altrui arriva dalla dipendenza da sostanze stupefacenti, specialmente da eroina, che nei momenti di astinenza, la perdita del controllo può facilmente portare a comportamenti violenti. Per farsi, o come dicono qui, “to fix” possono anche arrivare ad uccidere. Questa umanità alla deriva, ovvero i consumatori, sono l’ultimo anello di una catena lunga e articolata. Sono loro che pagano il prezzo più alto in termini di conseguenze. Sono loro che perdono la vita consumata dalla droga, sono loro che vengono arrestati frequentemente, sono loro che muoiono in carcere o linciati per le strade per aver rubato e borseggiato. Sono ragazzini, a volte minorenni, che finiscono nel giro del ghetto e come il nostro ragazzo di Bauleni, vengono presi, messi in carcere… sono loro a morirci dentro. Questi ragazzi, con la droga possono raggiungere solo due posti: due metri sotto terra nel cimitero di Leopard Hills oppure in una delle prigioni di Lusaka, mentre i grossi trafficanti, continuano indisturbati ad alimentare il circolo vizioso della corruzione per vendere morte a cielo aperto, e a vivere nelle ville più belle, tra feste, donne e macchinoni, mentre nel ghetto si soffre e si muore.

UPF: Pace e futuro sostenibile

MERCOLEDI’ 19 SETTEMBRE 2012

Alle ore 16:00, presso l’Auditorium della“Società Umanitaria” di via San Barnaba 48, Milano, siamo stati invitati all’incontro dal tema scelto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon per il 2012  “Pace sostenibile per un Futuro sostenibile” e hanno partecipato relatori di livello internazionale, quali:

Dr. Piero Amos Nannini (Presidente Società Umanitaria)
Prof. Morris L. Ghezzi (Presidente Nazionale LIDU)
Dr. Carlo Zonato (Vice Presidente UPF Italia)
Sig. Sanjay Kumar Verma (Console Generale dell’India a Milano)
M.me Arame Bacar Wade (1° Segretario Consolato Generale del Senegal a Milano)
MM. Y. Emy Blesio (Presidente Suryanagara)
Dr. Vittorio Robiati Bendaud (Fondazione Maimonide)
Ven. Lama Khenrab Rinpoche (Maestro residente del Ghe Pel Ling di Milano)
Dr. Angela Comelli (Coordinatore Generale Mani Tese Italia)
Dr. Diego Cassinelli ( Educatore dell’Associazione in&out of the ghetto in Zambia)
Ha moderato l’incontro il Dott. Antonio Stango, esperto di diritti umani.

 

Come in&out of the ghetto, ho presentato l’associazione e il nostro approccio,
come pratica di costruzione di pace e di futuro sostenibile.
Ecco una sintesi della presentazione:

 

“Vivo a Bauleni, uno dei 23 slum di Lusaka, in Zambia. Assieme a due donne zambiane, Bertha e Martha, abbiamo dato il via ad una nuova esperienza, un’associazione locale che si chiama in&out of the ghetto, con due obbiettivi fondamentali: empowerment dei giovani e sviluppo di comunità. In realtà questi due obbiettivi si fondono in un’unica grande meta, ovvero far si che i giovani del compound di Bauleni siano i protagonisti attivi dello sviluppo
della comunità in cui vivono. Non siamo gli unici a farlo, e probabilmente altri lo fanno meglio di noi. Abbiamo scelto però uno stile, un’approccio basato sulla sobrietà e sulla semplicità, sia del nostro stile di vita, sia delle strutture che utiliziamo. Il nostro ufficio infatti, è una stanza di metri 4×4 con una lamiera sulla testa. Anche gli strumenti che utilizziamo seguono questa linea di semplicità, preferendo il riciclo allo spreco e preferendo, laddove è possibile, l’acquisto di cose di “seconda mano” al nuovo. Questo permette di essere più vicini alla gente, a livello fisico ma anche come stile di vita. Permette di essere più raggiungibili e parte della quotidianità di una comunità. Non solo, questo approccio permette di abbattere anche i costi di gestione della struttura e dell’organizzazione sessa così da porter ribaltare le percentuali: meno fondi per il mantenimento della ONG e più fondi per interventi e progetti a beneficio della gente.
Nel nome che abbiamo scelto c’è la radice del nostro approccio e del nostro agire:
IN&OUT OF THJE GHETTO, ovvero DENTRO E FUORI DAL GHETTO.
DENTRO perché si vive all’interno del compound, per capire da vicino quel groviglio di energie positive e negative che abitano la quotidianità della gente. Da dentro si capiscono le cose, non meglio, ma diversamente. FUORI, perché insieme alla gente vogliamo tracciare vie che portino fuori dal ghetto, ma non tanto come luogo fisico, bensì come “forma mentis”, come schiavitù mentale che  paralizza e impedisce quel percorso di miglioramento e di liberazione di un individuo e di una comunità. Crediamo davvero che il passo con cui ci avviciniamo a situazioni di difficoltà, di disagio e di impoverimento, in buona sostanza, al modo in cui facciamo cooperazione, abbia a che fare con la giustizia, la pace e quindi con un futuro sostenibile.”

 

Monza: Tavola rotonda sulla Pace

VENERDI’ 21 SETTEMBRE 2012 MONZA

Alle ore 18:00, presso il Salone dell’oratorio del Duomo di Monza, molti giovani appartenenti a culture, nazionalità e tradizioni religiose diverse hanno lavorato, discusso e presentato il loro impegno per il dialogo intereligioso e per la costruzione di percorsi di pace, mentre ospiti sia laici che religiosi hanno testimoniato il loro impegno per la costruzione di percorsi concreti di pace, impegno sociale e integrazione. In questo contesto l’associazione in&out of the ghetto è stata presentata come pratica di costruzione di percorsi di pace e integrazione. Pece e giustizia sono astati al centro della presentazione della situazione zambiana.

Alle 21 è seguita una veglia intereligiosa con la partecipazione delle comunità Buddhiste Tibetane e Birmane, la comunità Islamica, quella Sikh, la Chiesa dell’Unificazione, la Chiesa Cattolica e quella Pentecostale.

Made’s birthday & amici della Cattolica

DOMENICA 16 SETTEMBRE 2012 

Una serata informale ma intensa tra amici studenti dell’Università Cattolica di Milano, condividendo, raccontando e promuovendo la nuova esperienza della in&out of the ghetto,  i progetti e i sogni. Un bel momento, con molte domande derivate anche dal film Bauleni 24 hrs. Grazie Ale, e grazie ai nuovi amici. Vi aspettiamo a Bauleni!

Ladies vs Ladies

MARTEDI’ 11 SETTEMBRE 2012 

Grazie all’aiuto di amici di Moncucco come Friends for Africass e Monks Caffè è stata organizzata una serata di calcio femminile per promuovere il calcio tra le ragazze under 12 del compound di Bauleni. E’ stata inoltre organizzata una lotteria e il ricavato è stato impiegato per l’acquisto delle divise delle nostre “Young Stars”. GRAZIE A TUTTI !

SCHEDA PROGETTO BAULENI 24 HOURS

 Cortometraggio di 25 minuti girato a Bauleni compound

Lingua:

  • Chinyanja con sottotitoli in italiano + trailer
  • Chinyanja con sottotitoli in inglese + trailer

Scopo:

  • Far conoscere la realtà di Bauleni in vari ambiti:

-       sensibilizzazione in Italia

-       sensibilizzazione in Zambia

-       advocacy in Zambia sui vari problemi dei compound di Lusaka

        (acqua, alcol, droga, prostituzione, criminalità, disoccupazione ecc)

-       coinvolgere e rendere protagonisti ragazzi/e  del compound e scoprire eventuali talenti

-       mostrare il lato bello e le potenzialità del compound

-       sensibilizzare la comunità di Bauleni

-       far conoscere la “in&out of the ghetto”

Tempi:

  • Tre settimane:

-       3 giorni scrittura testo e story-board.

-       3 giorni trovare il cast (esclusivamente ragazzi/e di Bauleni).

-       1 giorno general meeting con il cast.

-       5 giorni riprese nel compound.

-       6 giorni montaggio.

-       2 giorni per inserire i sottotitoli in italiano e in inglese.

-       1 giorno di prima visione con il cast e vari stake holders.

Risorse umane:

  • Stream Video Lusaka
  • In&out of the ghetto
  • 10 Ragazzi/e del compound di Bauleni

Sponsor:

  • Monk’s Comunity : Comunità di Moncucco e comunità del Comune di Vernate

Costo complessivo:

  • 3.000.000 Zmk = 526.000 € (cambio a 5700 Zmk)

…coming soon!

 

Da settembre in Italia, BAULENI 24 HOURS, un film, frutto di un progetto che  in&out of the ghetto in collaborazione con sream pictures sta realizzando con i giovani del compound. Un film che racconta Bauleni visto con gli occhi di chi ci abita. prestissimo nuove info!

se sei interessato/a a conoscere la realtà di Bauleni, i progetti e chi è l’associazione IN&OUT OF THE GHETTO, se vuoi organizzare una proiezione, contattaci!