Abbiamo visto e adesso…

17. E avvenne in uno di (quei) giorni (che) egli stava insegnando, e c’erano seduti farisei e dottori della Legge, i quali erano venuti da ogni villaggio della Galilea, e Giudea e (da) Gerusalemme; ed era la potenza del Signore che gli faceva operare guarigioni. 18. Ed ecco degli uomini che portavano su di un letto un uomo che era paralizzato, e cercavano di farlo entrare e di metterlo dinanzi a lui. 19. E non avendo trovato per quale (via) farlo entrare a causa della folla, saliti sul tetto, attraverso le tegole lo misero giù con il lettuccio nel mezzo, davanti a Gesù. 20. Ed (egli), vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti  sono stati perdonati i tuoi peccati”. 21. E gli scribi e i farisei cominciarono a ragionare dicendo: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare dei peccati se non solo Dio?”. 22. Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, prendendo la parola disse loro: “Perchè ragionate così nei vostri cuori? 23. Che cos’è più facile, dire: Ti sono stati perdonati i tuoi peccati, oppure dire: “Alzati e cammina?” 24. Ora, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha potere sulla terra di perdonare peccati – io ti dico – disse al paralizzato: - Dico a te, alzati e preso il tuo lettuccio, parti per la tua casa”. 25. E sull’istante, (quegli) levatosi dinanzi a loro, preso ciò su cui giaceva, andò nella sua casa glorificando Dio. 26. E (lo) stupore prese tutti, e glorificavano Dio, e furono riempiti di paura, dicendo: “Abbiamo visto cose straordinarie oggi!”. (Lc 5, 17-26)

 

Abbiamo visto cose straordinarie oggi”. Questa è una frase che ogni giorno dovrei dire prima di dare spazio al sonno con i suoi sogni. Dopo aver trascorso tutta la giornata, non solo tra le mille cose che mi impegnano, ma anche grazie ai momenti di respiro, preghiera, di pensiero e silenzio, alla fine, stanco ma comunque vigile, sarebbe bello dire: “oggi ho visto cose straordinarie”.  Ogni alba porta con se la sua straordinarietà, ma per molte ragioni purtroppo, non è facile accorgersene. Questo potrebbe essere un proposito per me: cercare di essere attento alla straordinarietà di ogni giorno e godere a pieno delle 24 ore. C’è anche l’elemento della paura. Le persone che hanno assistito alla reintegrazione dell’uomo paralizzato, dopo un primo momento di stupore in cui glorificavano Dio, a un tratto si sono spaventati e pieni di paura hanno proclamato quella frase: “abbiamo visto cose straordinarie oggi”. Ma perchè dopo lo stupore è arrivata la paura? Forse perchè la comunità di Luca ha messo l’accento su quel senso di smarrimento che coglie l’essere umano quando, estremamente convinto di una qualcosa, scopre improvvisamente che la realtà è un’altra. Non è facile ammettere di non aver capito niente o parte. E’ la paura di trovare il mio limite, di dover cambiar pensiero e stile di vita. E’ la paura che il Ragazzo di Nazareth ha portato nel mondo, chiedendo a tutti, con parole e azioni, con la testimonianza, di cambiare radicalmente rotta…quella che molti chiamano “conversione”. Paura perchè non si tratta di un pensiero che per un attimo poteva balenare nella testa di chi ascoltava il Nazareno. Non era un’idea, AVEVANO VISTO, era tutto vero ed erano sicuri di quello che avevano visto ed esperimentato. Avrebbero preferito non vedere, ma ormai erano stati testimoni di quell’evento straordinario. Avevano visto e non potevano più tornare indietro.  Ecco la paura è quella di non aver più scuse. “ABBIAMO VISTO COSE STRAORDINARIE OGGI”, e questo  mette al muro la nostra coscienza.

Ascolta, fai accadere e vivi

 21. Non chiunque mi dice: “Signore, Signore!”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che (è) nei cieli. 22. Molti mi diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetato e nel tuo nome (non) abbiamo scacciato demoni e nel tuo nome (non) abbiamo fatto molti miracoli?” 23. E allora dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, (voi) che operate l’iniquità. 24. Chiunque dunque ascolta queste mie parole e le fa, sarà paragonato a un uomo prudente che ha edificato la sua casa sulla roccia. 25. E scese la pioggia, e vennero i fiumi e soffiarono i venti e si abbatterono contro quella casa; e non cadde, perché era fondata sulla la roccia. 26. E chiunque ascolta queste mie parole e non le fa, sarà paragonato a un uomo stolto, il quale ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27. E scese la pioggia e vennero i fiumi e soffiarono i venti e urtarono contro quella casa, e cadde, e la sua caduta era grande”. 28. E avvenne che quando Gesù ebbe finito queste parole, le folle erano stupite per il suo insegnamento: infatti, insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi. (Mt. 7, 21-29)

Come prego….e come vivo? E’ una domanda esigente, tanto che non so se sono capace di dare una risposta. Dopo queste parole mi chiedo ancora una volta cosa sia la preghiera. “Non chi dice Signore Signore….”. il verbalismo, l’ostentamento dei gesti e l’esibizionismo non hanno nulla a che vedere con la preghiera. Al limite è teatro. Ma qui tu dici che neppure quelli che hanno predicato nel tuo nome, scacciato demoni e fatto grandi opere sono cittadini sicuri del regno, anzi, li rinneghi e li rimandi al mittente. A questo punto mi chiedo come vivo e cosa voglia dire vivere. Non è chi si ammazza di preghiere verbali o chi picchia le ginocchia nelle panche delle chiese o chi si consuma di attivita’ senza mai trovare un minuto libero. Chi vive davvero è “chi fa la volontà del Padre mio che è in Cielo”. Qui il discorso è diverso; non è la mia concezione di preghiera, non sono le mie grandi opere a fare la differenza, ma SOLO FARE LA VOLONTA’ DEL DIO DELLA VITA.  Si, va beh, ma qual’è la volontà di questo Dio della vita? Qual’è per me oggi , che mi stropiccio il cervello per capire che strada devo prendere. Ascolto e silenzio sono solo una parte, essenziale, ma pur sempre solo una parte che sola non basterebbe. Come ci dice la comunità di Matteo; “chi ascolta e non mette in pratica è come quell tale che costruisce la sua casa sulla sabbia”. Serve ascoltare silenziosamente, e poi agire, o meglio “FARE ACCADERE IL SENTITO”, che non significa correre e predicare o a scacciare i demoni o ancora buttarsi a capo fitto in una township qualunque. Tutto questo semmai è una conseguenza obbligata. Fare accadere la parola dentro di me, questo conta veramente. E’ la presa in carico delle intenzioni, delle motivazioni per cui si agisce. E’ la consapevolezza di queste due dimensioni, o il processo/cammino di presa di coscienza, per essere pienamente responsabile di ciò che sono i miei gesti e del mio agire.Prima la Parola SUCCEDE, ACCADE in me, poi agisco consapevolmente e forse questo, tutto questo è preghiere…tutto questo è vivere davvero.

Il Dio che impara

29. Allontanatosi di là, Gesù venne presso il mare della Galilea; e salito sul monte, si sedette là. 30. E si avvicinarono a lui molte folle, che avevano con sé zoppi, ciechi, storpi, muti e molti altri, e li deposero ai suoi piedi; ed (egli) li curò, 31. così che la folla si meravigliava vedendo i muti che parlavano, gli storpi sanati e gli zoppi che camminavano e i ciechi che (ci) vedevano; e glorificarono il Dio di Israele. 32. Ora, Gesù chiamati a (sé) i discepoli disse: “Ho compassione per la folla, poiché (sono) già tre giorni che rimangono presso di me e non hanno qualcosa da mangiare; non voglio licenziarli digiuni, perché non vengano meno nella via”. 33. E i discepoli gli dicono: “Donde a noi in un deserto tanti pani per saziare tanta folla?”. 34. E dice loro Gesù: “Quanti pani avete?”. Essi dissero: “Sette e pochi pesciolini”. 35. E avendo ordinato alla folla di stendersi per terra, 36. prese i sette pani e i pesci e, rese grazie, (li) spezzò e (li) dava ai discepoli, e i discepoli, i discepoli poi alle folle. 37. E mangiarono tutti e furono sazi, e raccolsero l’avanzo dei  pezzi, sette sporte piene. 38. Ora, quelli che avevano mangiato erano quattromila uomini, senza (contare) donne e bambini. 39. E licenziate le folle , montò nella barca e venne nel territorio di Magadàn. (Mt. 15, 29-39)

Mi piace pensare che mentre sedevi la sul monte, momentaneamente solo, pensavi e ripensavi all’incontro con la donna cananea. Certo ne aveva avuto di coraggio eh! Pensavi al suo viso, vedevi i suoi occhi scuri, pensavi alle sue mani stanche, eppure ancora belle, dignitose. Pensavi a ciò che le avevi detto riguardo il pane, a lei, che quel pane non ti aveva mai chiesto. Si accontentava delle briciole. Il pane è forse il simbolo di quella che alcuni coraggiosi o irriverenti chiamano  “la tua conversione”. Le donne ti hanno sempre dato molto eh Gesu’?! Scusami sai, ma mi piace pensare che quella donna ti abbia aiutato a capire ciò che già giaceva nel tuo cuore di Dio-uomo: il pane è per tutti! Non si tengono scorte per prediletti, non ci sono posti riservati o pagnotte prenotate. Il pane è per tutti. Ciò che dormiva nel tuo cuore è stato risvegliato. Avevi scelto pur sempre di essere uomo, e il cuore dell’uomo a volte sai, fatica a svegliare l’amore che vi è nascosto dentro. Questo l’hai provato anche tu per sentirti più vicino a noi, per sentirci più vicini a Dio. Quel giorno lassù in montagna ti sei preso cura della tua gente, e alla sera con sensibilità che commuove, ti sei lasciato toccare nuovamente dall’umano. Ti sei preoccupato per la loro vita, per il loro viaggio. Non basta curare al momento, serve portare la gente sempre al cuore. I CARE, avrai sentito nel tuo cuore ormai sveglio, e l’immagine di quella donna siro-fenicia ti ha accarezzato per un millesimo di secondo il viso. Il pane è per tutti. Questa gente che non conosco, ha bisogno di pane e non di briciole. A loro io voglio dare il pane in abbondanza, senza reserve, per tutti, nessuno escluso. E così hai fatto, ragazzo di Nazareth, Dio uomo che sai insegnare la vita ma che sa anche sorprendentemente imparare da essa. Ti voflio bene Falegname di Nazareth, ti voglio bene perchè sei semplice e umile. Ti voglio bene perchè non fai differenze e non ti importa del poco che siamo, perchè come quell giorno sul monte, dal poco che c’era, ne hai fatto bastare e pure avanzare.

La mia parte di Dio

 21. In quella stessa ora (Gesù) esultò nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, poiché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti, e le hai rivelate agli infanti. Sì, Padre, poiché così è piaciuto a te. 22. Tutto è stato consegnato a me dal Padre mio, e nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre, e chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelar(lo)”. 23. E voltatosi verso i discepoli, in disparte, disse: “Beati gli occhi che guardano quello che (voi) guardate. 24. Perché vi dico che molti profeti e re vollero vedere ciò che voi guardate e non (lo) videro, e ascoltare ciò che ascoltate e non lo ascoltarono”.  (Lc. 10, 21-24)

 Con tutta la buona volontà, l’impegno, la perseveranza, la preghiera e la meditazione, anche i più ascetici, i più illuminati hanno capito solo una piccola parte di Dio. La  sete di conoscenza del loro “ABBA’” era molta, avrebbero voluto comprenderlo tutto nel suo insieme, ma….niente. Sono i dotti, i filosofi, i teologi e i sapienti che possono spiegare qualcosa di Dio alla gente, ai semplici, ma in modo parziale, comunque limitato. Per questo Gesù di Nazareth hai esultato nello Spirito, sei stato contento e soddisfatto, tanto da ringraziare Dio per questo. Dio grazie, perchè sei talmente tutto che non puoi essere compreso dall’uomo. Nessuno ha la verità su di te. C’è una parola, un’emozione, una percezione unica che riguarda Dio, e questa può essere compresa solo dall’irripetibilità di una persona, solo da  Peter, da Misonzi, da Andrew o da Diego. Molti avrebbero voluto capire, vedere e sentire quello che voi sentite, anche i profeti e i più santi, ma non l’hanno sentita perchè quella parte di Dio parla solo ed esclusivamente a te. Sei beato Diego, sei beata Misonzi, sei beato Peter perchè per te c’è una parte di Dio che avrebbero voluto conoscere molti amici di Dio, ma è stata data solo a te, fanne buon uso, parlaci, immergiti, condividila e godila a pieno perchè sei beato e forse ancora non lo sai.

Comincia solo…ma solo per il momento

18. Ora, camminando lungo il mare della Galilea, vide due fratelli, Simone, detto Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano un giacchio nel mare; erano infatti pescatori. 19. E dice loro: “Venite dietro di me, e vi farò pescatori di uomini”. 20. Ora, essi subito, lasciate le reti, lo seguirono.  21. E andato avanti da lì, vide altri due fratelli, Giacomo (figlio) di Zebedeo e Giovanni suo fratello, nella barca con Zebedeo loro padre, mentre riparavano le loro reti; e li chiamò. 22. Ora, essi subito, lasciata la barca e il loro padre, lo seguirono. (Mt. 4, 18-22)

Gesù parte solo. Comincia la sua avventura tra l’umano…da solo. Dopo essere stato battezzato da Giovanni e dopo un periodo di deserto. Comincia. Un Uomo comincia a camminare tra la gente per le strade della Galilea. Questo mi fa pensare che l’uomo non può vivere da solo. Per cominciare qualcosa di grande però deve vivere questa paura e osarela sulla propria pelle. E’ lui solo che deve cominciare, poi verranno gli altri che si uniranno a lui. Il pioniere molte volte è solo. Se li chiama lui i compagni di viaggio, li cerca e li sceglie, e anche in questo è in controtendenza rispetto agli altri maestri del tempo, che contrariamente venivano scelti dai loro discepoli. La gente non si sceglie Dio come fosse esposto in uno degli scaffali del supermercato, incastrato tra altri idoli. Non è questo che probabilmente vuole passare il ragazzo di Nazareth. E’ Dio che ha scelto l’uomo, o meglio come dice Bonhoeffer, Dio e l’uomo si appartengono, quindi non e’ nemmeno un fatto di scelta. Si appartengono, è un fatto che li vuole compagni l’uno dell’altro.

Chi e’ Dio per me?

13. Ora, venuto Gesù nelle parti di Cesaréa di Filippo, interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dicono gli uomini che sia il Figlio dell’uomo?”. 14. Ora, essi dissero: “Alcuni Giovanni il Battista, ma altri Elia, altri poi Geremia o uno dei profeti”. 15. Dice loro: “Ma voi chi dite che io sia?”. 16. Rispondendo Simon Pietro disse: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.  (Mt. 16,13-16)

Chi è Dio per me? Questa è una domanda difficile e sinceramente non so se esiste una risposta esaustiva. E’ una domanda che mi viene posta partendo dal vangelo della comunità di Matteo 16, 13-16, dove Gesù di Nazareth chiede alla sua banda di disperati: “chi dicono gli uomini che sia il figlio dell’uomo?”. Gesù ascolta quello che i discepoli elencano, perchè solo di una sorta di elenco si tratta, parole vuote, generali: “uno dei profeti”. Sono parole vecchie, già usate, già apparse: “ Geremia, Elia, Giovanni il battista”. Sono parole morte. Elencano nomi di persone che sono morte, che hanno terminato il loro pellegrinaggio sulla terra. Non c’è il coraggio di credere nella vita, nella cosa viva, nel “Dio Vivificante”. Cercano tra i ricordi cose morte, perchè sono le sole a cui la loro mente sa arrivare. Sperano dalla morte, e quindi le loro speranze sono morte. Sono privi di speranza. Come dice Barban: “si accontentano del cadavere invece di cercare il risorto”, come le donne al sepolcro che chiedono: “ridammi il corpo del mio Signore”, e non cercano il Signore vivo”. C’è la speranza di ritrovare solo un morto, non un risorto. Dov’è la buona novella, la novità? Poi passa alla seconda domanda: “ma voi chi dite che io sia?”. Questa è una domanda difficile, ma più circoscritta di quella che è stata presentata ieri durante una conferenza: Chi è Dio per te Diego? Perchè è più precisa? Semplicemente per il fatto che Gesù il Nazareno, chiede ai suoi discepoli chi Lui e’ secondo loro. Chi è Gesù e non chi è Dio. Apparentemente può sembrare la stessa cosa: Gesù è Dio. Può essere vero per chi crede, ma comunque non è abbastanza, e non è del tutto corretto. Gesù è tutto quello che conosciamo di Dio. Gesù spiega una parte di Dio e rispondere alla domanda: “chi è Gesù per me” non è la stessa cosa che rispondere alla domanda : “chi è Dio per me”. E’ il concetto trinitario stesso a farci arrivare a questo. Dio è trino e uno e rispondere alla domanda chi è Dio per me presuppone di aver trovato già una risposta su chi è il Padre per me, chi è il Figlio e chi è lo Spirito Santo. Il Figlio, o Gesù falegname di Nazareth, è una parte della Trinità. Gesù invece dai suoi disperati vuole sapere solo chi è lui per loro. Gesù è il Dio uomo, l’affascinante esperienza del Dio-Carne, è la straordinarietà dell‘incarnazione. E’ il cammino di Dio da uomo, con passi da uomo. Comunque, oltrapassando questa pignoleria letteraria, la domanda resta impegnativa e non penso di poter arrivare ad una risposta chiara e comprensibile…fortunatamente. Gesù è esperienza. Io posso dire che per me Gesù è Respiro, oppure Vita, ma questo non trasmette ciò che è la mia esperienza, o ciò che il Nzazareno è per me. Dio è indescrivibile, “ grazie a Dio!”. Devo usare delle metafore, ma la metafora non è la cosa in se, tenta solo di avvicinarsi goffamente ma comunque resta a debita distanza, soprattutto quando si tratta di descrivere il Trascendente. Io uso parole. Le parole sono un dono immenso, straordinario. Sono poesia, sono astrazione, sono ritmo e musica, sono armonia e bellezza. Sono pezzi di Dio da ordinare con cura. Sono Cielo da amare, ma sono qualcosa di limitato. La parola è una sorta di ordinata facciata che si pone davanti a sentimenti, emozioni, odori, temperature ecc. Dietro, o meglio, dentro alla parola c’è qualcosa. Personalmente non potrei mai parlare con le paole di Piero: “ Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivificante”. Queste sono le parole di Pietro, dette con impeto, quasi con impulsività in un determinato momento. Sono parole dette di getto, che potrebbero avere poco senso agli orecchi di chi ascolta. Queste parole non appartengono al mio tentativo di descriverlo. Cosa vuol dire: “ Sei il Cristo…” A me non spiegano molto, non sono le parole che io userei per parlare del Dio-Uomo. Ciò non toglie che Pietro, nella sua intuizione momentana ha pronunciato parole cariche, piene di emozioni, sentimenti che non possono essere da lui descritte in altro modo.  Sono parole piene e non vuote come quelle dette dalla gente: è uno dei profeti”. Sono parole cariche come le nuvole brune di un temporale che sta per arrivare. Nel brano che mi è stato presentato, manca la parte piu’ importante, ovvero il versetto 17: “ BEATO SEI TU, SIMONE,BARIONA, POICHE’ SANGUE E CARNE NON TE LO HANNO RIVELATO, MA IL PADRE MIO CHE E’ NEI CIELI.” Gesù di Nazareth non può essere spiegato o definito, ma ne va fatta esperienza. Le parole di Pietro tentano di spiegare, di dare una forma, un aspetto, ma lo fanno in modo goffo, alla Pietro. Sono parole apparentemente come altre. Non è importante quello che dice ma ciò che sta dentro le parole. Le sue parole sono lotta per descrivere l’indescrivibile. Le parole assumono valore solo se sono vissute, sentite, se hanno energia e sono cariche di emozioni, sentimenti…di vita insomma. Pietro le dice quasi inconsciamente, di getto. E’ il solito frutto dell’irruenza dell’uomo Pietro? No. Gesù di Nazareth è l’uomo che sa vedere oltre quella facciata ordinata che è la parola, ne entra e si nutre delle emozioni che essa racchiude. Sa che sono parole piene di vita. Felice te Pietro, perchè davvero tu hai fatto esperienza del tuo Dio, nonostante tutto. Si’, è questo quello che conta. Lo struggimento per trovare le parole per definire l’indefinibile porta ad un risultato: non quello di trovare le parole giuste per dire o raccontare chi è Dio per me, ma usare parole, qualsiasi parola densa d’esperienza di Dio. Questo è quello che io penso e credo abbia visto il Nazareno nelle parole di Pietro Bariona o figlio del tuono.

Your bro


Sono Diego Cassinelli (Gigo o Cass), educatore presso l’associazione zambiana “in&out of the ghetto”. Oggi si cammina sulle strade dello Zambia, perché questo è il mio presente, perché è qui che mi trovo ora. E’ un piccolo pezzo d’Africa che sto imparando a conoscere, non con le solite lenti del pietismo e neppure con quello sguardo malsano di parte che giustifica tutto. Sono un “cantastorie” e racconto la vita per come mi si srotola davanti. C’è posto per il bello e il brutto ma non più per il pietismo. Basta bambini con le mosche in faccia e il pancione, quelle immagini servono a raccogliere fondi e ad ammazzare la dignità …facile così! Ora è tempo di fare insieme, promuovendo la bellezza che già c’è! Non si è mai “uomini” da soli; lo si diventa insieme. Ecco allora l’invito ad allargare questa nostra famiglia nomade, sempre in strada con la gente  “in and out of the ghetto”, perché questo è lo stile che sento forte, condividere la quotidianità della gente e vivere dove vive la gente. Senza grandi strutture che separano più di molti chilometri, ma tentare, senza ingenuità, di vivere il più possibile come vive la gente; vivere nel ghetto per poter tracciare un sentiero per poterne anche uscire. Per qualsiasi informazione o critica, per favore, contattami.

Tra musica, dreadlocks e sogni

Il compound di Bauleni e’ pieno di problemi, e’ vero, ma e’ anche un “laboratorio” di vita, dove si esperimentano ed esprimono una moltitudine di relazioni, di energie, emozioni, un intreccio di storie e personaggi, talenti, musica, arte, sogni e creativita’ che rendono quel groviglio di umanita’ un posto unico, dove si respira tutta la freschezza della vita. Continua a leggere

Aquiloni…roba da profeti!

Mwila ha gli occhi grandi, belli, scuri e brillanti, dove il bianco si taglia di netto con il nero profondo dell’iride. È piccola piccola ed ha un’aria malinconica. È diversa da tutti gli altri bambini che vivono nella casa delle suore di Madre Teresa a Lusaka. Sì, è vero, tutti i bambini sono diversi, ma Mwila ha una caratteristica poco comune; non sorride mai. Continua a leggere

All’altezza dell’essere umano

Dietro un cancello azzurro di una strada trafficata di Lusaka, riposano storie su letti di metallo bianco smaltato. Riposano con fiato corto, ogni giorno sempre più a debito d’ossigeno. Riposano sino al giorno in cui non potranno più essere raccontate. Quel cancello così sfacciatamente azzurro imbarazzerebbe un’intera via di Milano. I colori bisogna saperli portare, solo così la relazione con loro diventa una danza. Continua a leggere

Potrebbe esserlo di più

È Natale sì, quasi ci siamo, ma oggi, mentre ero in carcere, non l’ho percepito. Non mi sono ricordato che mi trovavo lì per festeggiarlo con quegli uomini rinchiusi. È Natale sì, ma quanta disumanizzazione! Io la dentro morirei, proprio fisicamente, non riuscirei a campare molto. Mi guardavo attorno mentre il vescovo di Lusaka celebrava la messa e vedevo gente attorno a me ammassata come bestie. Continua a leggere

Famiglia !

Si arriva e si parte, si incontra e si lascia, si sorride e si piange, ci stringe la mano al primo incontro e ci si abbraccia nell’ultimo. Gente, gente e ancora gente. E’ il dono del viaggio, della “missione”, il dono di una vita scelta tra dubbi, difficolta’, gioie ed entusiasmi. Il dono di una vita cosi’ bella proprio perche’ non sempre facile e scontata, mai prevedibile, aperta alla sorpresa e alla meraviglia. E’ cosi’ che mi sento ora ache sto lasciando Chikowa e la sua gente…la mia gente. Zaino in spalla e cuore pieno di gratitudine per il tempo che mi e’ stato regalato. Tempo che va oltre la suddivisione in minuti, ore, giorni  e mesi. Tempo slacciato dalla convenzione per ritrovare la sua integrita’ naturale, per diventare uno solo con cio’ che sono. Tempo di vivere. Si arriva sconosciuti ed estranei e si riparte famiglia. Che strano; si riparte proprio quando e’ casa, e’ calore di relazioni umane, quando si vuol bene e si e’ voluti bene. Si riparte quando si vorrebbe restare perche’ qualcosa e’ nato, si e’ creato. Lasci familiarita’ perche’ altre possano nascere ed essere vissute e poi ancora lasciate per lo stesso motivo. E’ la promessa fatta dal Ragazzo di Nazareth: “se lasci una famiglia ne trovi tante, molte di piu’ di quelle che ti aspetti ” Forse e’ il senso di cio’ che ora sento, questo continuo crearsi di nuove famiglie o forse e’ solo un movimento estensivo per farla diventare piu’ grande, per farla diventare una. Si lascia per non possedere in modo egoistico e paradossalmente ci si trova “guadagnanti” la liberta’ di essere di tutti. E’ la stravagante trovata di Gesu’ di Nazareth: “ chi perde trova”, che detta cosi’ non ha senso, ed e’ illogica. Finche’ restano solo parole rimangono sterili, vuote, demagogiche e anche irritanti. Ogni essere umano ha il suo unico, irripetibile, particolare e personalissimo modo di farle diventare vita, carne, allora si che se ne sfiora la bellezza. Ma si, parti ancora Diego, metti ancora una volta il tuo zaino grigio sulle spalle per riempirlo dei colori della vita e degli incontri, per riempirlo di famiglia e familiarita’. Tieni il cuore pronto e attento a far spazio, ci sono molte persone da portare  nel tuo viaggiare  e sostare. Qualcosa di me resta e qualcosa della gente incontrata parte con me. Il dinamismo della relazione, dell’amicizia, dell’amore di un mondo famiglia, corre, viaggia e resta. Siede sotto l’ombra di un’acacia dai fiori rossi o di un albero di mango con frutti ancora verdi e acerbi e si alza per camminare ancora sotto un sole che pizzica la pelle e bagna la schiena, tra sabbia e soffi di vento. E’ famiglia…. e’ famiglia anche quando si e’ “soli”.

…completamente diverso

Ho lasciato la città per qualche mese ed ora mi trovo completamente immerso nella natura, quella che mostra tutta la sua grandezza e potenza e fa sentiere l’uomo picolo e disarmato, quella che a tratti fa paura e allo stesso tempo lascia un senso di meraviglia da allargare il respiro. Sono nella missione di Chikowa, nella parte est dello Zambia, al confine con il Lwanga National Park, nella Lwanga Valley. I miei occi sono disorientati, ci vuole tempo per abbracciare con lo sguardo tutti questi colori primordiali. È tutto grande, cielo e terra. Ci vuole tempo per rieducare gli occhi all’antica bellezza, compagna quasi sconosciuta per molti sui figli orfani di madre ancora viva. Questa è un’altro tipo di esperienza, lontano dal degrado degli slums, delle grandi concentrazioni di urbane, qui gli spazi ci sono e sono immensi, grandi e lontani dalla città. La mia esperianza mi ha portato a “lavorare” in una scuola tecnica, Chikowa Youth Development Centre  dove si preparano  giovani in ambiti quali agricoltura, falegnameria e edilizia. All’inizio mi sono chiesto cosa potevo fare e cosa potevo dare io in questo ambito che non conosco, insomma voglio dire, non sono un muratore, non sono un falegname e nemmeno un agricoltore, cosa ci faccio qui?! Fortunatamente nella scuola gestita da fratelli missionari comboniani, si insegnano materie come formazione umana e tecniche di comunicazione e li mi sono buttato. Mi è stata data sostanzialmente carta bianca e mi sono concentrato sul lato sociale del college, riorganizzare i vari clubs già esistenti ma per vari motivi non funzionanti, come la band, il coro, il teatro e la stampa. Le potenzialità erano già tutte li, inespresse ma c’erano, si trattava solamente di motivare quei 67 ragazzi e ragazze tra i 20 e i 30 anni e di iniziare a colorare di entusiasmo nuovo la vita del college. Posso dire che qui ho utilizzato in modo creativo le competenze apprese all’università …ho fatto l’educatore/animatore insomma. Tutto a funzionato benissimo, ho dovuto solo dare loro il tempo di conoscermi e di fidarsi un pò di me, di prendere confidenza con questa strana figura di fratello missionario  comboniano con barba, capelli lunghi e tatuaggi, ma adesso posso dire che ha funzionato. I clubs funzionano ed in due mesi hanno organizzato tre serate di intrattenimento con danze tradizionali, canzoni e spettacoli teatrali. Hanno anche organizzato un momento di preghiera ecumenica, visto che i ragazzi del college appartengono a diverse denominazioni cristiane. Abbiamo messo in piedi un commitato dei vari leadere dei clubs che si incontrano regolarmente per organizzare gli eventi del college, in questo modo si risparmia tempo e la comunicazione è più efficace. Uno dei gioielli di questi due mesi è stata l’uscuta del primo numero del magazine del college; “The Spark of Chikowa”. Qui si è dovuto sudare un pò in quanto, non solo mancavano alcune competenze di base per impaginare il magazine ma c’era un vento ostile che scoraggiava i membri del gruppo, del tipo: “si ma non ce la faranno mai! Sono due anni che dicono, dicono ma poi non concludono nulla! ecc, anche tra chi avrebbe dovuto incoraggiarli. Bene, dopo 6 settimane, una serie di meeting con il press club, serate passate davanti a computer tutti insieme e giorni in giro per i villagi a raccogliere informazioni, il primo magazine della storia del college è uscito. Naturalmente ci sono ancora quelli che che gufano e cercano di demotivare il gruppo, ma adesso i ragazzi sanno che ce la possono fare, sanno che possono fare la differenza e dare il loro prezioso contributo alla vita del college. Sono state stampate una settantina di copie e si sono dati da fare per venderle. Il loro impegno è la più bella soddisfazione che si possa desierare. Nelle prime tre settimane ci è stato chiesto di prendere delle ore di lezione per organizzare un laboratorio sull’Enneagramma, un approccio di autoconoscenza legato alla formazione umana. Sono state due settimane intense, la prima settimana abbiamo tenuto questo laboratorio con gli studenti del secondo anno, e la seconda settimana con quelli del  primo. È stao bellissimo vedere il cambio di atteggiamento degli studenti durante questo workshop. All’inizio erano esageratamente svogliati, per non dire contrari a partecipare, ma all’ultimo giorno ci hanno chiesto un ulteriore giorno per approfondire delle tematiche e più materiale da poter consultare. Loro hanno detto che è stato utile…speriamo. Con 5 ragazze abbiamo creato il gruppo che si occupa di organizzare dei “cine-forum” in cui si è proposto un modo altro di guardare i film, trattando tematiche specifiche con distribuzione di materiale e dibattito sul tema scelto. Il primo film è stato Bordertown con Jennifer Lopez e Antonio Banderas  e abbiamo approfondito la tematica sulla violenza nei confronti delle donne nel mondo, con dati UN e esempi locali di maltramenti e abusi. Ci sono idee nuove, voglia di fare e progetti da reaizzare, uno su tutti è la creazione di un video che presenti e promuova la scuola, una sorta di documentario. Anche qui abbiamo raccolto del materiale, video delle attività nei campi, in falegnameria e nei laboratori di stesura dei mattoni, in cui i ragazzi sono i protagonisti narratori del viedo attraverso interviste e spiegazioni. Il materiale è pronto, ora il compito consiste nel montaggio e nella scelta di musiche e testi da inserire. Potrei raccontare ancora un sacco di cose, come la partecipazione alla fiera distrettuale e provinciale sull’agricoltura in cui, in entrambi i casi, abbiamo vinto ilprimo premio come migliore istituzione in ambito di sviluppo sostenibile, ma finisco qui, contento di essere stato presente a questa trasformazione, contento di aver ricevuto il dono migliore: la relazione con questi 67 ragazzi e ragazze. Ora ho altri due mesi che mi aspettano nel bush, ovvero nella savana senza luce, macchina, acqua, docce, bagni e altri confort. Vivrò nei villaggi, tra la gente di questa terra così bella…. Ancora una volta sarà qualcosa di completamente diverso.

Una ragazza come tante

Avevo incontrato per la prima volta Fostina sotto un portico di lamiera, vicino ad una delle 84 chiese cristiane di diverse denominazioni presenti nella township. Quella era la chiesa Battista. Quel giorno infatti la pioggia mi aveva sorpreso per strada, mentre camminavo per le vie di Bauleni, cosi’ corsi sotto il primo tetto disponibile. Non ero certo l’unico che tentava di ripararsi dalla pioggia e subito mi trovai pressato tra una quindicina di bambini che “giocavano a ripararsi” piu’ che ripararsi veramente. Con loro c’era Fostina, una ragazza di ventidue anni, semplice, come tante altre e di poche parole. Solamente dopo mi sarei reso conto di chi fosse veramente Fostina. La incotrai per la seconda volta dopo sei mesi, quando ormai la stagione delle piogge era solo un ricordo. Io non l’avevo nemmeno riconosciuta, dopo tutto quel tempo! Stava appoggiata ad una delle due colonne in perfetto  stile colniale all’ingresso del “Police Post”, una sorta di distaccamento della stazione di polizia. La struttura e’ piccola di color blu cielo e di un bianco troppo bianco per restare tale nella township. Quella ragazza mi chiama per nome da lontano, cosi mi avvicino per salutarla ma mi resi subito conto che non avevo la piu’ pallida idea di chi fosse. Con qualche domanda investigativa tentai di prendere tempo e di cercare il suo volto tra i volti dei tanti incontri fatti nella township. La ragazza continuava a parlare con una certa confidenza mentre tentavo di prender tempo inutilmente, ma forse il mio sguardo mi ha tradito e, forse per rispetto o per tenerezza, improvvisamente mi disse: “ti ricordi di me vero? Sono Fostina. Ci siamo visti quel giorno di pioggia vicino alla chiesa Battista”. Smascheratissimo, con il sorriso di chi non puo’ far altro che sorridere, feci cenno con la testa d’aver risolto il mio problema di memoria. Fostina era un ufficiale di polizia; non l’avrei mai pensato. Essere poliziotti in un posto come Bauleni non e’ proprio il piu’ sicuro dei lavori. Basti pensare che alla sera c’e’ una sorta di coprifuoco che in lingua locale chiamano  SHISHITA (sciscita), dalle 22:00 sino alle 5:00 del mattino, chi viene sorpreso in giro in quelle ore viene portato immediatamente al Police Post per accertamenti, e li, in una cella, ci spende pure la notte. Questo rende l’idea del livello di rigidita’ della legge per mantenere una sorta di sicurezza nella township. Subito Fostina mi racconto’ un aneddoto accaduto qualche sera prima del nostro incontro. Quella notte da un negozio arriva una chiamata, che avvertiva che dei ladri stavano cercando di entrare. Subito gli ufficiali in servizio si sono diretti sul posto, tra cui anche Fostina. Uno dei ladri ha comiciato a sparare contro i poliziotti mentre gli altri tre sono scappati. Dopo uno scambio di colpi, il ladro e’ restato a terra ferito. Mi raccontava la cosa come se fosse normale, e per lei probabilmente lo e’, ma non certo per me. Davanti a una frase come: “si ma non l’abbiamo ammazzato” detto da una ragazzina di 22 anni, si ha la sensazione che qualcosa in questa musica stoni. Cosi’ come strideva il “no” deciso che mi scandi’ quando le chiesi di poter visitare i ragazzi chiusi nelle celle del “Police Post”. Un’ autorevolezza non comune ad una ragazza della sua eta’ che strideva con l’apparenza, con la sua figura da ragazza come tante. Ma le sorprese non erano finite. Un giorno mi invito’ a casa sua, era il giorno piu’ sbagliato per una visita ma quello giusto per capire molte cose. Una volta entrato in casa mi trovai davanti quattro ragazzine dagli otto ai 14 anni impregnate a farsi le treccine, ovvero le sorelle di Fostina, e Joshua, un bambino di circa due anni aggrappato ai miei pantaloni, che non era il fratellino bensi’ il figlio di Fostina. Mi racconto’ brevemente la sua storia con il padre del bambino ma, taglio’ corto dicendo che, quel dolore che le si leggeva negli occhi scuri come la stanza in cui eravamo, era stato ormai sepolto e lasciato alle spalle. Fostina voleva dimenticare cio’ che non potra’ mai dimenticare. Dopo qualche minuto entro’ in quella stanza un ragazzo sui sedici anni, magro, con un fare da rapper americano e una cuffia di lana nera che portava a filo degli occhi, tanto che per guardarmi in faccia era costretto ad inclinare la testa indietro per allargare l’orizzonte ristretto dalla sua moda. Con un sorriso scomposto mi guarda e mi dice un po’ strafottenete: “hi big man” ovvero, ciao grande uomo, poi si siede e comincia a mangiare avidamente. Fostina, con gli occhi rivolti verso il ragazzo disse sospirando: “…e questi sono problemi seri”. Il ragazzo si chiama John ed e’ il fratello di Fostina. Ha smesso di andare a scuola quando aveva 13 anni e adesso beve e fa uso di droghe, una sorta di eroina che gli sta mangiando il cervello. Fostina guardo’ l’orologio e mi disse che in breve avremmo dovuto cambiare stanza perche’ dove eravamo ci sarebbe stato il consiglio di famiglia. Io non avevo capito di cosa si trattasse cosi’ mi disse: “ non so se posso dirtelo…ma si dai perche’ tanto il danno e’ fatto! Si tratta di mia sorella, quella laggiu’”, e mi fa cenno con la testa e poi prosegue: “e’ in cinta e adesso la famiglia del ragazzo deve venire qua per trovare una soluzione a cio’ che e’ accaduto”. Io guardai la ragazzina, aveva piu’ o meno quattordici o quindici anni. Prima che riuscissi a dire qualcosa sentimmo delle urla venire dalla strada, cosi’ uscimmo per capire cosa stesse succedendo. Era John, il fratello di Fostina che stava litigando con una donna per una cosa che nemmeno ho capito. Il ragazzetto era furente, ma la madre lo strattono’ verso l’ingresso di casa, poprio dov’ero io. La madre tentava di far calmare John con voce ferma e tenera allo stesso tempo, mentre il ragazzo sbraitava. Quello che mi colpiva maggiormante era lo sguardo fisso di Fostina, che seguiva il tutto con in braccio il suo bambino e un’attenzione che la rendeva  padrona della situazione pur non parlando e non agendo. Lo sguardo era fisso sul fratello ma sembrava accarezzare la mandre e sentire io suo stesso dolore. Sentiva dolore per quella donna dagli occhi rassegnati. A quel punto Fostina mi disse che avevo visto abbastanza, e come per proteggere me e la sua famiglia mi accompagno’ verso il mercato. Ritrovai Fostina qualche giorno dopo proprio al Police Post e mi disse: “vieni, ti faccio parlare con i ragazzi in cella”.  Mi porto’ davanti alle due celle, una per gli uomini, stracolma, e una per le donne, semivuota. Dalla cella delle donne senti’ gridare il mio nome, era Beatrice, una donna che conoscevo, di 35 anni circa, con problemi di alcol e prostituzione, che bazzica i bar vicino alla stazione. Beatrice scherzava mentre appoggiava la faccia tra due sbarre per vedermi meglio. Le chiesi perche’ fosse finita in cella e mi rispose tranquillamente che aveva accoltellato un uomo la notte precedente. Non feci tempo a ragionare su quanto aveva fatto che subito vidi nell’altra cella John, il fratello di Fostina. Lei mi guardo’ per un attimo, e dopo qualche secondo di silenzio mi disse: “l’ho portato qui io, l’ho arrestato io domenica, proprio dopo averti lasciato al mercato”. In quel momento il motivo che spinse Fostina ad accompagnarmi frettolosamente lontano da casa sua quella domenica. Fostina mi disse con un misto tra rabbia e amore:” deve imparare a rispettare la mamma e tutti gli essere umani…compreso se stesso”. Il ragazzo sembrava aver riindossato la sua eta’, aveva uno sguardo impaurito, la in quella piccola cella sovraffollata. Mi guardava e sembrava chiedermi con gli occhi di intervenire, di dire alla sorella quello che lui non aveva il coraggio di dire: “perdono”, ma era una perdono leggero, infatti, passate due settimane John, appena fuori dalla cella, ha aggredito un ragazzo vicino alla stazione prpcurandogli gravi lesion al volto. Dopo quel fatto John e’ scappato di casa, e ancora oggi nessuno sa dove si trovi. La polizia lo sta cercando, e una volta trovato non restera’ in cella solo settimane. Mi rendo conto che ad ogni incontro c’e’ un mistero  da contemplare, qualcosa di inimmaginabile, a volte molto oltre il possible. Storie da entrarci in punta di piedi, terrenni da calpestare scalzi, senza calzari, perche’ terra sacra. Questo e’ quello che sta vivendo una ragazza di ventidue anni incontrata in un giorno di pioggia…una ragazza semplice, come tante altre.

E’ tempo di dire goodbye

Si laudato mio Signore  per  coloro che perdonano per il tuo Amore sopportando infermita’ e tribolazione, e beati  sian coloro che cammineranno in pace che da te  buon Signore avran corona. Si laudato mio Signore per  la morte corporale che da lei nessun che vive puo’ scappare, e beati  saran quelli nella tua volonta’ che Sorella  Morte non gli fara’ male.

Ci sono persone che sanno fare sintesi della loro storia, delle loro esperienze, del loro tempo. Sono persone semplici che danno valore ad ogni istante della loro vita. Sono capaci di grande gratitunine, nei confronti della vita e chi l’ha pensata. Sono persone che sanno dire basta, sanno dire: ora e’ tempo, goodbye. Mr Mbewe e’ un omone robusto, sulla sessantina, con un volto  sereno e una voce profonda che ti rimbomba dentro. Abita nella township di Bauleni ma non e’ povero. Ascoltando le sue esperienze si capisce subito che e’ un uomo  che ha saputo cogliere con coraggio tutte le sfide e opportunita’ che la vita gli ha posto davanti. Ha viaggiato, cambiato radicalmente e piu’ volte lavoro e citta’. Ha una bella casa, una moglie che ama e cinque figli, alcuni sposati, altri laureati con un buon impiego. E’ un uomo realizzato, ma non avido di cio’ che ha ottenuto, sembra davvero un uomo libero e saggio. Mr Mbewe e’ la tipica persona che nella vita ha saputo amare tanto, forse e’ per questo che il suo cuore e’ tanto stanco e non vuole piu’ funzionare. Sono 18 anni che osserva una dieta rigida e ingoia pastiglie dalla mattina alla sera, ma tutto questo non sembra dare risultati, anzi, nell’ultima sua visita, il dottore ha proclamato parole che sapevano di sentenza: Mr Mbewe, deve andare in Sudafrica per un trapianto. Io ero seduto sulla poltrona di casa sua quell giorno, mentre con la sua voce calma e profonda, raccontava la sua situazione. Mr Mbewe era seduto proprio di fronte a me, con la sua polo bianca che evidenziava ancor di piu’ il suo stomaco ben pronunciato. Le sue parole erano rese ancora piu’ belle e profonde dalla sua capacita’ di narrare a dalla tonalita’ della sua voce rassicurante. Le parole riempivano la stanza, tanto da  avere la sensazione di doverle fare spazio ridimensionado il  mio volume per accoiglierle. L’omone parlava acarezzando le parole con qualche risata, ma il discorso era importante. Si trattava di una decisione che Mr Mbewe aveva gia’ preso, una decisione solo sua, dicutibile forse, ma sicuramente frutto della sua saggezza, della sua esperienza di vita e anche della sua fede da uomo libero. Sapete, ci dice con un sorriso, ho deciso di fare tutti gli esami che mi richiedono, anche per tranquillizzare mia moglie, ma non anndro’ in Sudafrica, non cambiero’ il mio cuore. Io ho avuto molto nella vita e non voglio chiedere di piu’, questo e’ il mio tempo, perche’ forzare le cose e chiedere ancora anni. Io sono grato per quello che ho avuto, non potrei chiedere di piu’. Sono felice e posso andarmene anche adesso. Ho cercato di sistemare la mia famiglia, hanno una casa, un lavoro, sono sistemati, alcuni sposati e ho tanti nipoti…io posso andarmene sereno. Non ho paura, so che con un cuore malmesso come il mio posso collassare da un momento all’altro, puo’ succedere adesso come tra due anni, qui sul mio divano o mentre cammino per le strade della townschip, ma sono pronto. Il gelo che avrebbe dovuto crearsi nella stanza era scacciato dal calore e dalla bellezza delle sue parole, tanto piene e vere da disorientare le nostre. Io e il mio confratello ugandese Felix, ci guardammo per un attimo, e tutta l’ammirazione per quell’uomo era sussurrata nella lacrima mai caduta ma che dava allo sguardo di Felix un’intensita’ diversa. Avrei voluto fare tante domande, tentare di fargli cambiare idea, ma davanti all’uomo libero nemmeno la morte puo’ far nulla. Adesso sono seduto, lontano dalla casa di Mr Mbewe e penso, penso che l’uomo saggio e libero sa staccarsi da tutto, anche dalla propria vita. Penso che abbia capito qualcosa che di segreto che ancora non afferro, ma che in qualche modo avverto. Penso che Mr Mbewe non si sia arreso, anzi, penso abbia vinto e accolto la sfida piu’ importante della sua vita. L’uomo libero sogna ed ha il coraggio di sognare oltre il confine del possible.

Il bello e la forza di vivere

Faceva caldo quel sabato, e il sole picchiava sui tetti di lamiera del compound, tanto da farli scricchiolare come scricchiola il metallo della marmitta di una macchina appena parcheggiata. Erano le quattro del pomeriggio, e la, sotto la veranda di una panetteria chiusa per lavori, c’era Elvis sulla sua sedia a rotelle verde, dove lo smalto della vernice aveva generosamente lasciato ampi spazi alla ruggine. Con lui c’era il suo fidato amico Martin, un ragazzone di struttura robusta, segno di un uomo abituato alla fatica. Il suo sorriso, semplice quanto spietato, rivela immediatamente che dietro il corpo da uomo c’e’ un cuore e un pensiero da bambino. Non so sinceramente quale sia il suo problema, ma sta di fatto che Martin ha delle difficolta’ a livello mentale. Io non sapevo vivessero assieme, e nemmeno potevo immaginarlo, sino al momento in cui Elvis mi invito’ a visitare la loro casa. Martin spingeva la carrozzina, sudato e con il suo immancabile sorriso, mentre Elvis tentava di spiegarmi, tra una buca e l’atra, dove fosse la sua casa, forse anche per rassicurarmi sul fatto che non avrei dovuto camminare molto sotto quel sole. Una volta arrivati davanti alla porta di legno, Martin comincio’ a trafficare frettolosamente per togliere il lucchetto che unisce la porta al muro trammite un grosso anello di ferro. Elvis entro’ per primo, seguito da Martin che lo spingeva, e poi tentai anch’io di entrare, ma non c’era piu’ spazio e solo dopo qualche manovra riuscimmo ad incastrarci in modo che tutti avessero un posto per sedersi. Dentro c’era un letto solo che occupava tutta la lunghezza della casa. L’unica parte libera del letto in cui salire e scendere era sfondata e cadeva leggermente verso il basso. In un  angolo c’era un’altra sedia a rotelle, quella di scorta, sommersa da oggetti di uso quotidiano, come secchi, pentole di alluminio, catini di plastica blu, piatti di metallo smaltato e altro ancora. Io ero seduto su un piccolo sgabello di legno e pelle di capra, con la porta d’ingresso che mi poggiava sulla spalla destra, e in quiesto modo riuscivo anche a tenerla aperta, visto che faceva molto caldo detro la casa. Martin invece era seduto sul letto e Elvis sulla sua sedia a rotelle contro il muro, proprio sotto un calendario del 2007 con una pubblicita’ di un’associazione locale. Elvis sembrava felicissimo di mostrarmi la sua casa, il suo “kingdom” o regno, e mentre parlava mi guardava soddisfatto, con quegli occhi profondi e allo stesso tempo stanchi. Nei momenti di silenzio mi chiedevo come potessero due persone con i loro limiti vivere assieme, in quelle condizioni, in un posto come Bauleni! Elvis parlava e nel frattempo pensavo al fatto che la costruzione in cui noi teniamo gli attrezzi per lavorare la terra, e’ molto piu’ grossa e areata della loro casa. Nel buio di quel tugurio, brillava la loro capacita’ di essere comunita’, di mettersi assieme per potercela fare nonostante le loro difficolta’ e i loro impedimenti. Paradossalmente quell’ addizione di limiti e fragilita’ da un risultato sorprendente, ovvero; la forza di vivere. Mentre camminavo per le viette della township, tornando a casa, riflettevo sul senso e sull’importanza della comunita’ e del fare comunita’. Non e’ facile stare assieme, necessita di compromessi, mediazioni e comprensione. Non e’ facile convivere, mettere insieme le differenze e far tacere l’egoismo per lasciare spazio all’altro nella sua totalita’, con i suoi limiti ma anche con i suoi pregi. Tuttavia e’ uno sforzo necessario perche’ soli non bastiamo, non ce la facciamo. Chi promuove l’individualismo e l’autosufficienza estrema, vende illusioni, e a chi segue questo modello purtroppo molto comune in Europa, la vita, prima o dopo presenta il conto e il prezzo da pagare e’ la solitudine con le sue conseguenze. Elvis e Martin fanno riflettere. Il loro stile di vita, il loro modo di andare avanti e di aiutarsi insegnano a porre maggiormente l’attenzione su quell principio tanto caro al Ragazzo di Nazareth, che e’ quello della solidarieta’, dell’aiuto reciproco, del creare toni di civilta’ e di comunita’, perche’ e’ in questo modo che ci si salva dall’inferno in terra e si risorge come donne e uomini nuovi gia’ in questa vita, perche’ e’ dalla comunita’ che nasce il bello e la forza di vivere. Grazie Elvis, grazie Martin.

Il senso dell’attesa

Cammina, non ti preoccupare, non avere paura di incontrare. Va, e la strada ti portera’ dove qualcosa di grande ti sta aspettando. Presta attenzione, poggia il tuo sguardo con cura, perche’ come tutti i tesori, cio’ che ti attende spesso e’ nascosto bene. Non rattristarti se non lo riconosci all’istante, se ci passi accanto e non ti accorgi della sua profondita’, della sua bellezza. La sua semplicitá, non si lascia sorprendere e corrompere da passi poco attenti. Quel giorno, la vita era nascosta nelle fessure e nelle crepe dei muri di una “baracca” della township di Bauleni. Cosi’, come una visita inaspettata, il senso dell’attesa ha preso profondita’, profumo, gusto, e un nome: Christine. Posso chiamarla cosi’: Christine, donna che segna e insegna l’Avvento. Cosa vuol dire attendere? L’Avvento e’ un tempo di attesa gestante, di attesa orante, e’ un tempo denso, tutt’altro che perso. Christine e’ una donna non piu’ giovanissima, ha tre figli e da anni e’ ormai vedova. E’ una donna fisicamente debole, questo per via di un ictus che l’ha segnata profondamente. Si muove lentamente e la sua voce e sottile e arruginita come il filo di ferro che tiene unite le assi del suo uscio pieno di schegge. Quel giorno Christine ci aspettava per pregare insieme, come gia’ avevamo fatto altre due volte, ma questa, era un’attesa diversa. Una volta al mese il prete o chi per lui, porta la comunione ai malati della township, cosi’ quel giorno, quel “chi per lui”, eravamo noi, novizi comboniani. Christine era seduta in casa, su una stuoia di canne di bambu’, con le gambe dritte e la schiena leggermente appoggiata all’armadio di legno bruno come la sua pelle. Dopo pochi secondi di silenzio cominciarono a scivolare nell’aria le note della sua voce. Il suo sguardo era fisso sulle sue ginocchia, o sulla stuoia di bambu’, come se le parole  fossero conservate e nascoste tra gli interstizi delle cannette color fieno. Parole sussurrate in una lingua incoprensibile. Sembravano parole segrete, da pronunciare tra un respiro ed un altro. Nessuno si era preoccupato di tradurre il frutto del suo sforzo, era passato tutto come passano i secondi nel quadrante di un orologio. Nel mezzo della preghiera, Joseph, un mio compagno di cammino, mi bisbiglia nell’orecchio: prima Christine ha detto che si e’ svegliata alle cinque per preparare la casa e mettersi in ordine”. Erano le 10:30, quando siamo arrivati. Christine, che a mala pena si regge in piedi, si era svegliata alle cinque, perche’ per le sue forze, per le sue possibilita’, ci voleva del tempo per preparare quel momento. L’attesa come tempo di preparazione. Quelle parole mi hanno portato ad osservare attentamente Christine e la sua casa, che, sino a dieci minuti prima ritenevo una baracca. Ad un tratto mi e’ sembrata sorprendentemente elegante, con la sua camicia bianca perfettamente stirata e la sua lunga gonna scura che si appoggiava delicatamente sulla stuoia. La testa era avvolta da un telo bianco e blu con un nodo ben fatto sopra la fronte, leggermente spostato sulla sinistra. Ho notato la pelle cosparsa di olio riflettere piccole schegge di sole che penetravano dai buchi del soffitto di eternit grigio. Di quell’olio ne ho sentito il profumo, tra l’odore acre del nostro sudore e quello pungente della township, un profumo che mi ha portato a duemila anni fa, e ne ho avuto nostalgia. Ho notato il tappeto sul quale era seduta, pulito, senza grani terra rossa, ho notato i bicchieri lucidi ordinati come soldati di cristallo nell’armadio. Ho notato il copriletto colorato e ben teso sul materasso e un bidone di latta al centro della casa, coperto da un telo bianco che fungeva da altare. Ho notato cose che prima avevo ignorato, dato per scontato. L’attesa non e’ feconda solo per chi la pratica, ma anche per chi si aggira nei suoi dintorni. La sua aurea leggera ti cattura, ti coinvolge e ti chiama in causa. Attendere vuol dire prestare attenzione e aiutare anche altri a rivolgere uno sguardo attento a cio’ che ci gira intorno. Ecco il senso dell’avvento, prestare attenzione al Dio che nasce nelle piccole cose, impercettibili, date per scontate o ritenute prive di senso. Vi auguro tutto questo, perche’ anche voi possiate trovare la bellezza e il senso del Natale, non tra i pacchi luccicanti e I fiocchi colorati, ma tra le fissure e le crepe di un vecchio muro di una casa lontana, sperduta…come quella notte a Betlemme.

Dal silezio di Dio al grido della gente

 Sembra proprio che la stagione delle piogge sia alle porte.Il vento caldo da voce agli alberi, e le nuvole giocano con il sole, coinvolgendo la terra e chi la abita. Attorno a me ho colori di savana. Scrivo seduto sotto un’acacia dalle foglie fini, tra un filo d’erba verde e cinque di color paglia. Fra poco qui sara’ tutto verde,e il colore rossastro della terra fatichera’ a vedersi. Saranno mesi di benedizione per la gente che abita lontano dalle citta’, per la gente che aspetta qualcosa dal duro lavoro della terra. Anche qui a Bauleni c’e’ chi aspetta la pioggia, ma forse la gente della township non ha lo stesso ardore nell’attenderla. Bauleni e’ un groviglio di case, dove la gente vive ammassata, senza servizi. Pochi hanno la possibilita’ di godere di elettricita’ e praticamente nessuno di acqua corrente. Si dice che i suoi abitanti siano circa 27 mila, ma non e’ un dato certo. Ho visitato le sue strade, i suoi viottoli larghi poco piu’ di un metro, tra una casa di mattoni ingrigiti dal fumo e il colore sgargiante di qualche tugurio adibito a negozio. I suoi budelli sono scoscedi, fatti di terra pressata e macerie. Nella stagione delle pioggie li immagino gia’ come torrenti di acqua rossa e spessa , pattume e pietre. Il canto degli uccelli che sento da qui, non e’ diverso da quello che sentivo a casa. Anche qui sento la stessa gioia di vivere, di volare, ma tra un cinguettio e un altro, da lontano si sente la voce della township. Bauleni e’ viva, la si sente da qui. Si sentono le urla , le risate, la musica, i fischi e altri rumori che non riesco a distinguere. E’ il chiasso della vita. E’ la vita che grida perche’ vuol farsi sentire; ‘’ ei sono qui, non mi riconosci? Incontrami,!” Torno adesso dalla piccola cappella del noviziato, dopo un’ ora di adorazione, di contatto con il Dio che abita tutti gli uomini. Torno adesso da un’ ora di liberazione personale per sentire ancora urgente il grido della liberta’ che ancora mi chiama da lontano. Il grido della township di Bauleni che mi riporta istintivamente al mio personale cammino di liberazione, cosi’ da farne diventare uno solo, il mio e quello della gente. Alcol, droghe, prostituzione, aids, pedofilia, violenza, oppressione, miseria… Ecco il grido! Dov’e’ Dio? E’ laggiu’, tra la vita che chiede riscatto, oppure e’ nella nostra cappellina ben dipinta, nel silenzio delle nostre debolezze? Io mi trovo ora in una terra di mezzo, sotto un albero provocato dal vento, tra la gente e la chiesa. Sono strappato, strattonato dal richiamo dell’essenziale da una parte, e dalla necessita’ di condivisione dall’altra. Un giorno queste due richieste impellenti si uniranno, si bacieranno e si daranno la mano, ma ora e’ tempo d’attesa gestante. E’ il tempo del silenzio e del distacco. Sono a Lusaka, la capitale dello Zambia, e sono qui  per continuare il mio cammino di formazione. Lo avevo scritto prima di partire: deserto e distacco da cio’ non e’ essenziale. Questo e’ il motivo della mia permanenza qui in Africa. A dire la verita’ non mi aspettavo una radicalita’ cosi’ marcata. Niente internet, niente telefonino, nemmeno il telefono fisso. Posso comunicare solamente con delle lettere, e mi chiedo sinceramente che cosa sia a farmi accettare tutto queste restrizioni? Questa e’ la domanda che mi sono fatto, dopo un primo momento di ribellione interna,  quando ho saputo lo stile di vita che mi aspettava. Eppure a casa non mi mancava niente, perche’ accettare queste restrizioni medioevali? Se riuscissi subito a trovare una risposta onesta a quasta domanda avrei gia’ finito il mio cammino e potrei partire per qualsiasi paese e situazione, ma questo e’ un momento di verifica per capire se veramente il mio posto nel mondo e’ nella famiglia dei missionari comboniani, come fratello. Posso abbozzare pero’ una risposta. Non sono sprovvisto di parole e pensieri, e i sentimenti chiedono di essere descritti, disegnati e colorati. So che non sono venuto qui per niente, che c’e’ una risposta tremante ma pur sempre aperta e urgente, e la convinzione che mi aspetta ancora vita piena da giocare e spendere, tra doni e limiti. Per il momento posso condividere solo questo, e’ troppo poco il tempo passato dalla partenza, ma spero di potermi raccontare ancora nei prossimi mesi. Vi mando un abbraccio e una preghiera dalla terra africana.